Divo e redivivoAlain Delon, l’incarnazione del bello e del grande cinema diventato piccolo

L’attore francese era ed è ancora l’entelechia del fascino impunito, l’uomo che nessun figurante d’oggi potrà mai eguagliare

Da sempre, da che ho memoria, da che so fare conversazione, quando un uomo esprime giudizi estetici sprezzanti su una donna, qualunque uomo sia e di qualunque donna stia parlando, ho una sola risposta: «Tu, invece, sosia di Alain Delon periodo “La piscina”».

È – dovrei dire «era», ma il fatto è che lo sarà per sempre, per noialtre del Novecento – una risposta che capiscono tutti, perché per tutti quelli la cui memoria vada indietro più d’un quarto d’ora Alain Delon è l’entelechia del bello. Del bello insuperato e insuperabile: al liceo mi presi una cotta per un sosia di suo figlio Anthony, che era bello, ma che tutta la vita tutte avranno guardato pensando «eh, ma vuoi mettere tuo padre», una maledizione che in confronto Edipo viaggiava leggero.

Delon era (è) l’incarnazione del bello anche per quelli che i suoi film non li hanno visti, o se li hanno visti non gliene è importato granché, tra i quali potrei annoverarmi persino io, che di Zurlini so solo che a un certo punto ero in classe con sua figlia, ma conosco il cappotto che Delon indossava in “La prima notte di quiete” come l’avessi cucito io.

È così che funziona quando sei una star, ed è questo il grande rimosso della polemicuzza tra Quentin Tarantino e George Clooney, con uno che dice che l’altro non ha fatto in questo secolo un film memorabile che sia uno e quindi non è una star, e l’altro che dice come sarebbe in questo secolo, praticamente la mia intera carriera si svolge in questo secolo.

Ma sappiamo tutti – io, voi, Clooney che è molto più intelligente di me e di voi – che quel che Tarantino sta dicendo è: puoi venderti tutte le foto del matrimonio che vuoi, ma è passato troppo tempo da “E.R.”, le ragazzine non si strappano più i capelli.
E sappiamo tutti – io, voi, Clooney che è così furbo da fingersi privo d’autostima e quindi non lo direbbe mai – che Tarantino si sbaglia: è proprio così che si dimostra d’essere una star del cinema, facendoci correre a leggere le interviste di uno di cui non c’interessa un film dai tempi di “Out of sight”.

A Delon, per quanto mi riguarda, bastò “Il Gattopardo”. Bastò Tancredi Falconeri, che neanche è il protagonista ma riesce comunque a rubare la scena al principone, interpretato da quell’altro figo assoluto di Burt Lancaster. Tancredi Falconeri che, quanto a nome pazzesco di personaggio, se la batte col Gordon Gekko di “Wall Street”, col Romolo Catenacci di “C’eravamo tanto amati”, e con Blanche DuBois di “Un tram che si chiama desiderio”.

Si racconta che, una volta in cui dovevano ricoverarla in un reparto psichiatrico, un’infermiera tentò di calmare Vivien Leigh dicendole: «Io la conosco, lei è Rossella O’Hara», e quella strillò «Io non sono Rossella O’Hara, io sono Blanche DuBois», col rancore verso i successi maggiori (“Via col vento”) di chi vorrebbe riconosciute le opere di successo minore che tendono per forza a sembrarci d’ingegno maggiore.

Chissà cosa mi avrebbe urlato, Delon, chissà che titolo avrebbe rivendicato. Ma io, nel ruolo dell’infermiera, sono sicura che gli avrei detto «Io la conosco, lei è Tancredi». Il Tancredi dell’unico film di Visconti di cui mi sia mai importato, il Tancredi che non sarebbe potuto essere nessun altro (non vedo l’ora che arrivi il secondo volume dell’epistolario di Visconti per leggere le trattative d’epoca), il Tancredi sfacciato e impunito e insostituibile: non so chi sia il ragazzino che lo farà nel rifacimento di Netflix, ma lo vedo e lo piango.

Non so chi sia, ma leggo che è fidanzato con la figlia della Bellucci, e penso che le star sono finite, lo star system neppure a parlarne, e a nessuno di questo secolo importerà di questi due quanto alle vegliarde del secolo scorso importava di Delon e Romy Schneider. Romy Schneider che oggi, invece di fare la novecentesca vita di una delle donne più belle del mondo, si sentirebbe forse costretta a rivendicare le gambe corte e il culo basso, e diverrebbe militante della body positivity.

È andata così, viviamo in un secolo di ottusità e presentismo, e probabilmente Delon non sarà ricordato dai giornali con lo spazio che si darebbe a un Carneade protagonista d’una qualche puttanata Netflix degli ultimi tre quarti d’ora e quindi ben vivida nella nostra memoria di pesci rossi. I coccodrilli di Gena Rowlands li hanno titolati con un filmetto di questo secolo, qualcuno su Twitter ha commentato che era come titolare il coccodrillo di De Niro con la sua partecipazione a “Ti presento i miei”, e Ben Stiller, confermando d’essere un talento satirico sottovalutato, ha risposto: perché, che altro ha fatto?

Come tutti quelli che di mestiere scrivono, guardo chiunque abbia più di settant’anni e penso al coccodrillo. Loro parlano, e io abbozzo una traccia, questo lo uso questo no, prima questo poi quest’altro poi quest’altro ancora. Per molti anni ho pensato che il mio incipit, quando fosse morto Delon, sarebbe stata una cronaca della mitomania di mia madre alla quale, secondo la leggenda famigliare, Delon aveva toccato la pancia gravida una qualche sera in Costa Azzurra. Se vi sembro mitomane, eccovi una scusante: ho passato l’infanzia a sentirmi dire «Sei così bella perché Delon mi ha toccato la pancia»; voglio vedere voi, al posto mio, non sviluppare un ego che tocca aprire le finestre per farlo uscire.

Poi un amico attore mi ha raccontato d’un set su cui stava girando nell’estate del 2006. C’era anche Delon, che non gli aveva mai rivolto la parola, l’amico avrebbe giurato non si fosse neanche accorto della sua esistenza, si sentiva trasparente, ma d’altra parte quello è l’uomo più bello del mondo e la storia del cinema, perché dovrebbe filarselo.
Poi arriva la mattina del 10 luglio, la sera prima c’è stata la finale dei mondiali di calcio tra Italia e Francia, forse Materazzi ha insultato la mamma di Zidane, di certo Zidane gli ha tirato la testata alla quale poi sarebbero stati dedicati alcuni milioni di editoriali, altrettanto certamente l’Italia ha vinto e la Francia ha perso.

È la mattina del 10 luglio, la leggenda si avvicina all’italiano e, in toni bruschi ma affettuosi, gli dice: grazie per aver battuto quella squadra di africani. Era diciotto anni fa, quando non c’erano i social, e quindi non si rischiava, riportando questa frase, di ridurre il defunto a orrido destrorso. Ma, poiché mai come oggi siamo spiritualmente nel Novecento, dirò oggi quel che pensai quando mi venne riferita quella frase: Tancredi è ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo.

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