It ends with usManuale breve di conversazione postmoderna a uso di un pubblico sotto tutela

Il primo appuntamento tra Gena Rowlands e John Cassavetes e quello del vice di Kamala e della sua futura moglie sono l’ennesimo ricordo di quanto eravamo meno fessi nel Novecento. Oggi è il sito Doesthedogdie a rappresentare la nostra epoca, perché le persone hanno bisogno di essere tenute per mano, anche quando guardano un film

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Alla fine del loro primo appuntamento, John Cassavetes riaccompagnò a casa la ventitreenne Gena Rowlands e provò a baciarla. «Ma starai scherzando», disse lei, «Non abbiamo niente da dirci, hai parlato tutta la sera del tuo cane». Era il 1953, e la civiltà della conversazione non era ancora andata completamente a puttane.

John chiese di cosa volesse parlare, lei rispose «Ma che ne so, letteratura, teatro, cose così». Era il 1953, John andò a casa e chiese al padre cosa potesse leggere per essere in grado di fare conversazione, il padre gli diede una serie di libri, lui tornò da lei e le disse ho letto questo e questo, adesso possiamo parlare? L’anno dopo si sposarono.

Mentre moriva Gena Rowlands, dando a tutti noi la possibilità di scrivere il novecentesimo pezzo sulla fine del Novecento, questo secolo ci forniva una conversazione pubblica che in quello scorso sarebbe stata impensabile, sul film tratto da un romanzone popolare di quelli che nessuno di noi (io che scrivo, voi che qui leggete) ha letto, ma che fottendosene di noi hanno venduto fantastiliardi di copie.

Scusate, poi torno al film e al dibattito postmodernista, ma ieri era in atto un grande scandalo social perché su TikTok una ragazza – immagino una booktoker analfabeta di quelle che piacciono all’inserto culturale di Repubblica – aveva immortalato il proprio stravolgimento nello scoprire che esistono libri scritti in terza persona.

Di tutto l’indotto del TikTok della tizia, mi ha colpito la capacità di sintesi di una signora americana che dava la colpa ai romanzi per ragazzi, o – come li chiamano gli analfabeti poliglotti – YA, young adult. «Sto addivenendo alla conclusione che dovremmo rendere omaggio all’editoria YA per aver dimostrato, contrariamente a ogni precedente teoria educativa, che leggere può essere un modo di far calare l’alfabetizzazione». Sogno di farle incontrare quell’editore che mesi fa mi disse «I conservatori stanno accettando il fatto che se vogliono sopravvivere si dovranno alleare coi fasci; e noi tutti che, se libri di merda vogliono, libri di merda faremo».

E quindi rieccoci al tema del giorno: il dibattito del momento verte intorno a un libro di merda che, nei due anni dall’uscita, ha venduto solo in Italia duecentosettantaduemila copie (sto pensando a quale scrittore italiano non darebbe gli organi sani dell’anziana madre per venderle; forse solo Scurati, perché le vende già: gli organi dei suoi anziani parenti sono al sicuro).

Il libro è un romanzo rosa, e lo so che vi racconto continuamente di romanzi rosa che stravendono, ma le copie di Colleen Hoover – che è texana, e già questo rende strano il suo successo: è il secolo dei prodotti culturali locali – pesano più di quelle di Felicia Kingsley, del cui successo strabiliavo meno d’un anno fa, e che si è data un nome anglofono ma è di Carpi.

I libri della Kingsley, Newton Compton li mette in vendita in edizione economica anche quando sono nuovi. “It ends with us – Siamo noi a dire basta”, il libro della Hoover da cui ora è stato tratto un film da cui sono già derivate almeno tre polemiche, Sperling lo vende a 15 euro e 90; 19 e 90 nella nuova edizione per il film, che ha venduto altre diciannovemila copie. Sono, ho fatto il conto io per voi, quattro milioni e mezzo che con uno solo dei suoi libri qui tradotti Colleen è valsa a Sperling (lordi, preciserebbero loro passando poi a parlare dell’aumentato costo della carta: neanche i tassisti piangono miseria quanto gli editori).

Ma scusate, mi sono distratta a parlare di soldi giacché sono un’insensibile che non pensa al problema rappresentato dal film. Un film il cui trailer, lamentano le ostentatamente fragili postmoderniste, non rende possibile capire che non di commedia romantica si tratta ma di storia in cui lui mena lei.

Le nostre eroine che vogliono fare la rivoluzione femminista ma hanno paura dei rumori del frigo usano la dicitura «violenza domestica», ma lo scrivono «viol3nza», perché altre che come loro hanno paura dei rumori del frigo potrebbero turbarsi solo a vedere la parola «violenza», e insomma mi pare che l’emancipazione femminile sia in saldissime mani.

Dicono le nostre eroine che le donne che hanno subìto violenza domestica (le analfabete poliglotte le chiamano «survivor») escono dal cinema ritraumatizzate. Scrive una di queste ideologhe trentenni che pensano come quindicenni e parlano come dodicenni: «’Sta roba è mega problematica». Ci vorrebbe, dicono, un trigger warning, uno di quegli avvisi raccolti nel sito più rappresentativo di questo secolo, Doesthedogdie.

Tu vai lì e, prima di guardare “Emily in Paris”, verifichi che non contenga niente che ti turberà: nessun cavallo muore, nessuno si ubriaca, nessuno viene sepolto vivo. Attenzione, però, avvisano undici premurosi utenti di Doesthedogdie: qualcuno si taglia un dito. Ah, allora niente “Emily in Paris” per me, una volta mi tagliai un dito facendo a cubetti il parmigiano e certo non posso rivivere quella traumatica esperienza.

Forse non basta neanche il sito che ti avvisa, perché la mia nuova ideologa preferita scrive «So bene che non basta un trigger warning per affrontare un tema in tranquillità». Chi era, De Filippo che diceva «La disgrazia non ti manda il telegramma»? Non puoi vedere il film e neanche puoi vivere, senza avvisi che ti tutelino.

Ora, io ho guardato i due minuti e mezzo di trailer che non farebbero capire il tema del film, ed essi contengono: la voce di lei che dice «bastano quindici secondi per cambiare tutto» mentre lui spacca cose in casa; lei che si rimira le cicatrici; l’amica di lei che le dice con voce vibrante «non è colpa tua». Già così, non mi pare ci voglia miss Marple per intuire da che parte vada il film. Ma poi, è un film di regista sconosciuto con protagonista una tizia famosa quindici anni fa per un telefilm: che ragione c’è di andare a vederlo, se non che sei una delle trecentomila lettrici del libro e sai già tutto?

Naturalmente non è questa la domanda che tendo a farmi, bensì: perché devi sapere tutto? Perché vuoi vivere sotto tutela? L’altro giorno sul New York Times c’era un profilo di Gwen Walz, moglie del candidato a diventare il vice di Kamala Harris alla presidenza degli Stati Uniti. Si raccontava che al primo appuntamento, nel 1993, erano andati al cinema a vedere “Un giorno di ordinaria follia”.

Probabilmente ve lo ricordate: era quel film (stupendo) in cui Michael Douglas sbroccava per mille piccoli contrattempi e voleva sparare al banconista del McDonald’s che gli diceva che dopo una cert’ora non servivano la colazione. Poiché il Novecento è finito, i commentatori erano stravolti: ma vi pare un film da primo appuntamento?

Ora, lo so che i commentatori degli articoli sono gli stessi che comprano libri di merda, sono la più bassa forma di vita intellettuale e non bisognerebbe mai leggere i commenti, ma io m’illudo di capire il mondo sondandone gli abissi, e quindi ho passato due giorni a chiedermi: ma perché non devi andare a vedere un film stupendo con un attore che in quel momento è una star? Perché non è romantico e al primo appuntamento solo “Titanic”? (In cui comunque lui muore, anzi muoiono in parecchi: lo dico per farvi da Doesthedogdie).

Plausibilmente, Tim e Gwen erano andati a vederlo perché nel 1993 non solo non c’erano i trigger warning ma neanche i trailer da vagliare sul telefono per decidere se il film ti avrebbe agitato. I più fortunati di noi sono stati giovani in un’epoca in cui spessissimo, se il trailer non ti era passato davanti mentre guardavi la tele, entravi al cinema sapendo sì e no chi fossero il regista e gli attori. Sarà per quello che veniva prodotta roba meno lobotomizzata: perché il pubblico aveva meno bisogno che gli fosse tenuta la mano.

Comunque pure Gwen ha rimbalzato Tim Walz quando quella sera lui ha tentato di baciarla. E lui le ha detto «Ma sappi che mi sposerai». Il parallelismo finisce qui, perché la storia di Gena e John è assai più istruttiva di quella degli Walz rispetto al presente: oggi, se dici a uno che il cane non è un argomento di conversazione, quello ti riporta a casa e poi, invece di correre a leggere dei libri, corre a dire al mondo quanto sei insensibile. E l’internet gli dà ragione e probabilmente chiede che, per donne orrende come te, che non vogliono far le coccole a Fuffi ma parlare di letteratura, Tinder metta un trigger warning: Gena, stronza anaffettiva con pretese culturali.

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