In che cosa consiste la buona architettura? Chiedete a qualsiasi architetta o architetto e vi parlerà in lungo e in largo della straordinaria importanza del suo lavoro, con una passione pari solo all’appassionata indifferenza che le o gli riserva la società in generale. L’architettura sembra essersi cacciata dalla parte sbagliata della storia.
Bisogna ammettere che di fronte ai problemi più pressanti del nostro tempo – disuguaglianza economica, crisi climatica e diritti umani sotto attacco – la disciplina non fa una gran bella figura: concorre all’aumento dei prezzi degli immobili, è parte integrante di un settore che è il più grande produttore di Co2 ed è incurante
delle macchinazioni politiche che contribuisce a perpetuare.
Elitaria negli anni Settanta del Novecento, dimenticata negli Ottanta, riscoperta nei Novanta, idolatrata per gran parte dei primi due decenni del Duemila, oggi l’architettura sembra motivo di preoccupazione: una disciplina che non è abbastanza consapevole delle sue conseguenze, e quindi da tenere sotto controllo. Sono lontani i giorni dello splendido isolamento e delle scelte privilegiate tra pari.
L’architettura ha catturato l’attenzione sia del settore pubblico sia di quello privato, e c’è un’unica cosa su cui i due settori concordano: la posta in gioco è troppo alta per lasciare l’architettura agli architetti.
Valutati duecento ottantamila miliardi di dollari, gli edifici rappresentano il più grande asset globale: il triplo del Pil mondiale, il doppio delle riserve di petrolio di tutto il pianeta e trenta volte la sua riserva aurea.
L’edilizia è il pilastro più importante del nostro sistema finanziario e, come hanno dimostrato le ultime crisi globali, anche una possibile causa del suo tracollo. Quel che vale a livello finanziario, vale anche a livello ambientale. Gli edifici producono il trenta per cento di tutte le emissioni di gas serra, mentre la loro costruzione è responsabile del quaranta per cento del consumo energetico mondiale.
«L’ambiente costruito ci riguarda tutti!» è il mantra di pressoché ogni conferenza sull’importanza dell’architettura. E quel «riguardarci» non si limita all’economia o all’ambiente. Come dimostra il crescente numero di pubblicazioni e conferenze sul tema, l’ambiente costruito ci tocca anche a livello emotivo.
«Felicità», «benessere», «vivibilità», e «senso del luogo» sono solo alcuni esempi dei termini sempre più emotivi con cui si parla del nostro ambiente edificato, e il loro utilizzo diffuso è indice dell’evidente mancanza di tutto ciò.
Nell’era dei big data tutto è quantificabile, anche i sentimenti, e anche all’elusiva professione di architetto si possono attribuire responsabilità: la buona architettura ci fa stare bene, la cattiva no. Una logica difficile da contestare.
Ma quando si cerca di dare una base a tali valutazioni meno tecnocratiche, per quanto auspicabili, sorge un problema: come misurare felicità, benessere, vivibilità o senso del luogo? Se l’impatto economico o ecologico dell’ambiente costruito tende a manifestarsi sotto forma di fatti concreti, lo stesso non si può dire dei presunti effetti emotivi.
Certo, si possono fare sondaggi, distribuire questionari, usare dati presi da Internet, ma per quanto grandi o dettagliati possano essere i numeri dei ranking di vivibilità, dei rating di benessere o degli indici di felicità che si ottengono, persiste un fastidioso contrasto: quello tra il valore smisurato attribuito a ognuna di queste proprietà da un lato, e la loro natura intrinsecamente incommensurabile dall’altro. L’incommensurabile non può essere misurato. Qualsiasi sforzo in tal senso significa solo far rientrare dalla finestra quella soggettività che i numeri cercano di buttar fuori dalla porta.
Del resto, i tentativi di imbrigliare le discipline creative in standard oggettivi tendono a lasciare l’amaro in bocca – che sia il concetto nazista di arte degenerata, il realismo socialista di Stalin, il bando cinese agli edifici insoliti o, più di recente, gli snervanti tentativi del governo britannico di monopolizzare il concetto di bellezza.
Si potrebbe sostenere che misurare una cosa sia il primo passo per sottrarla all’ambito del libero arbitrio. Una volta misurate, le cose possono essere classificate, confrontate e, se serve, incoraggiate a cambiare per reggere
il confronto. Ciò che è misurato è costretto a conformarsi. Diventa vettorializzato.
Ironia della sorte, è stato il sistema globale della libera concorrenza a esasperare il processo. Oggi esistono indici globali per quasi qualunque aspetto della vita, professionale o personale, fattuale o emotivo, reale o immaginario. Nel sottoporre a quantificazione un numero sempre più alto di segmenti dell’esistenza, il mondo della libera concorrenza mostra la sua natura di forte illibertà.
«La vita, la libertà e la ricerca della felicità» non sono più una scelta individuale, ma un imperativo cui conformarsi. Niente ha successo quanto il successo. Possiamo solo andare più avanti e più in alto. La competizione non consente alcuna sfida, semplicemente perché interiorizza tutte le sfide. Il suo principio è sfidare tutto, di continuo, ovunque… finché non rimane che un’interminabile gara. Non sforzarsi per
qualcosa, ma sforzarsi e basta. Il fine coincide con i mezzi.
I valori non devono essere difesi, ma mobilitati. Non ci sono verità, solo aspirazioni. Nessun assoluto, solo confronti, promossi in forma di infiniti benchmark, riferimenti, precedenti, pietre miliari, esempi eccellenti. È un principio che ha consumato l’economia e l’ideologia politica, il mondo della scienza e quello dell’arte e della cultura. Pervade la nostra lingua come pervade il nostro pensiero.
Opera attraverso parole e numeri, molto spesso una combinazione dei due, usando i luoghi comuni come surrogati degli ideali e le misurazioni come surrogati della logica. Più le conclusioni sono scontate, più le evidenze numeriche presentate a loro sostegno sono ricche.
La filosofia amatoriale incontra la pseudoscienza, praticata da un esercito di guru del pensiero, consulenti di strategia, specialisti dei contenuti ed esperti della materia. L’architettura, di per sé un misto di filosofia amatoriale e pseudoscienza, si è dimostrata vulnerabile a questa tendenza.
Non essendo né un’arte né una scienza, non possiede i loro meccanismi di difesa ed è condannata a combattere una guerra su due fronti: contro i luoghi comuni non comprovati e contro arbitrari sistemi di misurazione che li puntellano, contro parole che non permettono antonimi – quale architetto, in pieno possesso delle sue facoltà mentali, non si augurerebbe che la gente fosse felice e vorrebbe invece progettare
edifici invivibili e osteggiare il benessere? – e contro numeri che non permettono contestazioni. Non si può discutere con i sentimenti delle persone, non quando sono espressi in cifre.
Siamo passati dagli architetti che cercano di spiegare al mondo quel che stanno facendo, a un mondo in cui gli architetti si sentono dire cosa dovrebbero fare. Mentre prima era una disciplina di idee – che aiutava a formulare degli standard – oggi ci si aspetta che l’architettura si conformi a standard imposti da altri: una professione sotto assedio, costretta ad adottare posizioni virtuose sempre più estreme, ritenuta responsabile dal mondo della finanza, dalle scienze sociali e negli ultimi tempi anche dalla medicina, tutti con evidenze meno opinabili a loro disposizione.
Ma il buono, quanto è buono? Cosa resterebbe dell’architettura se facesse proprio ciò che le viene detto? Che tipo di ambiente si produce quando le aspettative vengono soddisfatte, per quanto irragionevoli, incompatibili o contraddittorie possano essere?
Se con il libro precedente (“Four Walls and a Roof”) volevo ridimensionare i miti proiettati dagli architetti, con questo provo a ridimensionare i miti proiettati sull’architettura dal mondo esterno, confutando le dottrine che le sono state applicate negli ultimi vent’anni.
Questo libro racconta la trasformazione vissuta dalla professione di architetto negli ultimi due decenni, a partire dalla Bilbao post-Guggenheim per finire con la Silicon Valley: dall’architetto visto come un taumaturgo ai nerd che ne tracciano su un grafico la superfluità.
Sapendo che la prima cosa non è mai stata vera e presumendo che la seconda non succederà mai, mi soffermerò sulle fasi intermedie, in cui l’architettura si ritrova alla mercé di ricerche estranee che non è in grado di rifiutare né di realizzare.
In ordine di apparizione: archistar di prim’ordine, eccellenza, sostenibilità, benessere, vivibilità, placemaking, creatività, bellezza e innovazione.
Ciò detto, l’ambizione più importante del libro viene dal suo interno: la ricerca di un’architettura che torni a essere tale, scritta con la sincera speranza che, nel liberarsi di un bagaglio non richiesto, la nostra professione possa un giorno riemergere come una disciplina indipendente e critica.
“Architettare, verbo. La nuova lingua del costruire”, Reinier De Graaf, Add editore, pp. 320, 20,90