Cambiano i tempi, cambia il vino, cambiano le abitudini, cambia la posta in gioco. Cambiano i campioni in carica del titolo di meilleur sommelier de France. In un’epoca di grande dinamismo, trasformazione e instabilità del vino, a iniziare proprio da quello transalpino, che sta attraversando una grossa crisi, abbiamo intervistato a tutto campo due personalità del mondo enoico parigino, separate da due generazioni. Stesse domande, sensibilità differenti, risposte talora divergenti.
Il campione in carica
Xavier Thuizat, trentanove anni, borgognone, è il campione in carica dei sommelier bleu-blanc-rouge. Ha vinto il titolo nel 2022 e nello stesso anno si è aggiudicato anche l’ambìto riconoscimento di Meilleur Ouvrier de France. Dopo quasi vent’anni nei migliori hotel della capitale, dal 2017 è capo sommelier dell’Hôtel de Crillon, place de la Concorde, nel cuore della Parigi chic. È anche capo sommelier di Air France.
Il veterano
Philippe Bourguignon, classe 1948, è diventato miglior sommelier di Francia a trent’anni. Dopo aver lavorato in vari ristoranti quotati della capitale, è stato capo sommelier poi direttore generale del ristorante Laurent, a due passi dall’Eliseo, fino al 2016. È membro dell’Académie du Vin de France.
L’aria che tira
Abbiamo voluto entrare subito nel vivo di una fase storica di mutazioni e indagare lo stato di salute attuale del vino, dal punto di vista della produzione (viticoltura, ecologia, adeguamento al cambiamento climatico…).
«Penso che rispetto al riscaldamento in sé ci sia un po’ troppo allarmismo» ritiene Thuizat. «In compenso, il cambiamento nel suo complesso (stagioni fresche anomali, grandinate, inondazioni, grandinate, gelate primaverili) è davvero inquietante. Le patologie della vite aumentano, la pressione è continua, le perdite sono enormi. Per il mercato “di base”, che poi rappresenta il 93 per cento dei volumi complessivi, alcune innovazioni tecniche possono essere utili a tutelare i raccolti, come ad esempio i vitigni resistenti. Per i vini di prestigio è un’altra cosa. Le Appellation d’Origine Contrôlée (Aoc) hanno forse ceduto a troppe concessioni qualitative, abbassando il livello. Penso che debbano fare uno scatto in avanti e non credo che i vitigni resistenti siano adatti ai vini a denominazione».
Philippe Bourguignon mette l’accento sul livello qualitativo attuale: «Il vino non è mai stato così buono come negli ultimi quindici anni. Molti problemi, come vendemmiare con il freddo, o come l’insufficienza zuccherina delle uve, che prima costringeva alla chaptalisation (zuccheraggio dei mosti, ndr), sono un ricordo. Ma la questione oggi è l’eventuale mancanza d’acqua, che può diventare un problema serio. Molti vignaioli sono davvero preoccupati.
Il profilo dei vini è cambiato. In particolare viene spesso a mancare la colonna vertebrale dell’acidità, e i vini un po’ molli e alcolici non sono quelli che preferisco, personalmente».
Una clientela più consapevole
L’altra faccia della medaglia riguarda il modo in cui il vino è accolto dal pubblico. La clientela attuale è probabilmente assai più consapevole e competente che in passato.
Thuizat conferma: «C’è molto, molto più interesse! Penso di poter dire che oggi tre clienti su dieci conoscano un po’ il vino; qualche anno fa era uno su dieci. C’è molta più informazione, veicolata anche da internet e grazie ai dispositivi che ci portiamo dietro ogni giorno. Ci sono anche molta più curiosità e apertura. I francesi stanno uscendo dai grandi classici, non ho mai venduto così tanti vini stranieri come oggi. La settimana scorsa, ad esempio, mi è stata richiesta una serata sui grandi bianchi italiani, ed è stata un successo. Davvero, me ne rallegro sinceramente. È una cosa molto positiva».
Bourguignon concorda in parte: «C’è di sicuro una maggiore esigenza e consapevolezza nel voler capire che cosa si beve. E c’è meno sciovinismo, con una maggiore apertura all’esterno, a vini di altri posti, che fanno anche sognare, viaggiare… Sono una curiosità e una fonte di evasione. Trenta o quarant’anni fa per un francese era una cosa inimmaginabile». Ma non sono tutte rose e fiori: «È una questione complicata» precisa il campione nel ’78. «Si beve meno vino. Certo, si bevono rosati e spumanti, ma il rosso è in crisi, per non parlare dei vini dolci. Gli igienisti ci dicono che bisogna bere meno vino. Oggi in Francia il vino si vende al calice: una bottiglia per due persone al ristorante è quasi una cosa “moralmente” proibita!»
Il pericolo asiatico
L’apertura della clientela verso nuovi mondi è un’arma a doppio taglio. In Francia si guarda con una certa preoccupazione all’emergere di realtà produttive inedite, come quella cinese.
«Per i vini correnti, quotidiani – avverte Thuizat – Pechino è più che una minaccia. L’altro giorno parlavo con un produttore bordolese di vini industriali, che esporta in Cina. Dal 2022 al 2023 il suo giro d’affari è crollato da 1,5 milioni di litri a zero. Zero! I cinesi hanno iniziato a produrre, come vaticinato dieci anni fa dai sociologi, e oggi sanno fare un Cabernet Sauvignon “base” di pari livello di un bordeaux entry level. Le porte del mercato cinese si sono chiuse. Per Bordeaux è un dramma. Per i grandi vini, che continuano a occupare un posto di riguardo, in una specie di “bolla protetta” (etichetta, prestigio, dimostrazione di forza economica), la situazione invece regge. Almeno per ora…»
Philippe Bourguignon è più possibilista: «Io non credo sia una minaccia. Il fatto che i cinesi si avvicinino al vino è comunque un fenomeno positivo, anche se bevono vini loro e non europei. Il vino non ha frontiere. Il protezionismo è una realtà congenita, ma ho fiducia che in fondo il mercato riesca ad auto-regolarsi. L’importante è che emergano nuovi consumatori di vino».
Lutetia caput mundi?
Nonostante una realtà globalizzata estremamente complessa e dinamica, per numerosi francesi il loro prestigio e la tradizione rimangono una forma di rassicurazione. È legittimo chiedersi se la Francia sia ancora un punto di riferimento.
«Inconsciamente sì» ritiene il campione in carica. «Il Cabernet Sauvignon oggi lo troviamo in Perù, in Thailandia, sull’Himalaya… È diventato il vitigno rosso più piantato nel mondo. Perché? Non tanto perché si adatti facilmente a vari climi e terroir, ma perché il Bordeaux rosso rimane, nonostante tutto, un riferimento culturale e stilistico. La Francia è la patria di tutti i miti: Pétrus, i grandi Borgogna, Yquem, i Premier Cru Classé… Si tratta di un’immagine mentale ma anche di un fatto concreto, almeno per quanto riguarda i vertici qualitativi. Quando un cliente straniero mette il naso su un calice di Romanée-Conti percepisce che c’è qualcosa in più, qualcosa di inimitabile. Quindi penso che, da questo punto di vista, la Francia resterà per sempre un punto di riferimento. Per quanto riguarda la capacità di osservazione del mercato, invece, c’è poco da fare: Londra o New York rimangono avanti di dieci anni rispetto a Parigi».
Bourguignon è più perplesso, e spende elogi per il Belpaese: «La Francia è una realtà complicata e sa tirarsi la zappa sui piedi. Qui il vino è visto come un demone, parificato all’alcol puro. Ci autoflagelliamo, non sono sicuro che l’Esagono sia capace di rimanere il centro del mondo del vino. L’Italia è più dotata della Francia nel vendere e promuovere i propri vini».
Non di tutta l’uva un fascio
Parlare di Francia è però general-generico. Oltralpe ci sono oggi regioni sopravvalutate (o sovraesposte mediaticamente) e territori invece ancora troppo poco noti o stimati.
«Sono i prezzi che fanno sì che i vini diventino sopravvalutati» si rammarica Bourguignon. «La Borgogna, in particolare la Côte de Nuits, sta diventando una realtà drammatica. Ma non tutta la Borgogna va messa sullo stesso piano, penso che il Pinot Nero abbia un futuro nel Nord, nei dintorni di Tonnerre o Irancy. E i vini bianchi a Vézelay. Potenzialmente in crescita sono anche l’Alsazia, troppo spesso considerata come una realtà esotica, il Muscadet, lo Chenin Blanc secco nella Loira. Al contrario, sempre in Loira un territorio come Pouilly-Fumé deve lavorare per raggiungere il livello di Sancerre. Spesso i “piccoli vini” delle zone semi-sconosciute danno altrettanto piacere che le bottiglie famose. Il piacere non è una faccenda matematica», conclude il sommelier.
«Iniziamo dalle regioni sottovalutate. Per me – replica Thuizat – indubbiamente la Corsica. Ha tutto: clima, vitigni, una crescita qualitativa e di competenze da parte dei vignaioli straordinaria. È la regione francese più straordinaria oggi e quella del futuro. Anche lo Jura, malgrado le sue piccole dimensioni; ma è già stato in buona parte scoperto dagli appassionati. Quanto alle zone sopravvalutate, mi piange il cuore a doverlo dire, perché ci sono nato, ma purtroppo con i suoi prezzi impazziti la Borgogna si sta scavando la fossa. E ho paura di un Bourgogne-bashing (critica indiscriminata, sull’esempio del Bordeaux-bashing di qualche anno fa, ndr)».
Nature or not nature?
Trascinati da un successo crescente, ma anche regolarmente al centro delle critiche, i cosiddetti vini naturali sono visti da alcuni appassionati come una promessa per il futuro, mentre per altri fanno già parte del passato. Xavier Thuizat non ha tentennamenti: «Per me sono parte del passato, senza dubbio. La vinificazione naturale, se è difettosa, appiattisce la leggibilità del terroir. L’assenza di solfiti può essere un grosso problema, quando dà note di brett, ad esempio. Un vino del genere non offre più punti di riferimento, il degustatore non sa più dove si trova. Quanto ai lieviti indigeni, Axel Marchal (professore di enologia a Bordeaux, ndr) ha dimostrato che non sono parte del terroir, perché viaggiano da un luogo all’altro. E devo dire che mi capitano sempre più clienti che non amano i cosiddetti vins nature. Proporli può creare tensione tra il cliente e il sommelier. Certo, occorre fare le dovute distinzioni: non tutti i vini senza additivi sono difettosi, ci mancherebbe. Romanée-Conti ne è la riprova da anni. Occorrono una vera competenza e attenzione da parte dei vignaioli, in cantina».
Philippe Bourguignon parte da una constatazione: «Non ho l’impressione che il fenomeno si contragga, ma che si espanda. Tuttavia, come ogni evoluzione, si svolge passando per vari eccessi. Bisogna fare vini naturali in modo pulito, senza deviazioni. Certo, con le imprevedibili condizioni climatiche estreme che viviamo oggi sta diventando sempre più difficile gestire le vigne… Non è un’utopia, ma temo che fare vini naturali stia diventando sempre più complicato. Confidiamo nella ricerca agronomica, senza per questo cedere alle manipolazioni genetiche».
Alla ricerca di un’economia sana
Uno dei problemi di fondo del vino del ventunesimo secolo sono i prezzi, già evocati in precedenza. Cru, Grand cru e Premier cru sono ormai articoli di lusso e di speculazione.
«Sono più di vent’anni che il vino è diventato un bene di rifugio e un oggetto finanziario» si rammarica Bourguignon. «Io lo trovo insopportabile, ma è così. Molti collezionisti non aprono mai le loro bottiglie.
Cominciò tutto con l’annata 1982 a Bordeaux, osannata da Robert Parker. Da lì iniziò un circolo vizioso sui prezzi. Non è questo il mio mondo del vino. Ma per fortuna c’è ancora dell’altro».
Thuizat concorda con il collega: «Per le bottiglie blasonate è sicuramente speculazione. È stata raggiunta la soglia massima e non è affatto sano. Oggi alcuni grandi châteaux di Bordeaux hanno in cantina casse di invenduti che arrivano al soffitto, e i prezzi stanno finalmente iniziando a scendere. Qualche anno fa una famosissima azienda borgognona mi ha mandato il suo listino: più settecento per cento in un anno. Ho risposto che non avrei comprato nulla. “Nessun problema – mi ha obiettato – venderò a Singapore”. Solo che quando è arrivato il conto, i clienti di Singapore hanno mandato indietro il vino. Non era mai successo.
L’altra cosa triste è che la maggior parte dei clienti che comprano grandi bottiglie a prezzi astronomici non ha cognizione di che cosa stia comprando e di che valore qualitativo possano avere. A volte alcuni miei clienti postano sui social etichette di bottiglie pagate il giusto, vantandosi di aver fatto un grande affare. Magari pensano io mi sia sbagliato. Ma io ci tengo a fare sì che i nostri prezzi rimangano ragionevoli. Le bottiglie vanno stappate».
Guardare al futuro
Chiudiamo necessariamente guardando avanti, e dunque con le nuove generazioni. In Francia i giovani si stanno inesorabilmente allontanando dal vino.
«Credo che intervenire sia primordiale – avverte Bourguignon – ma, per farlo, la filiera dovrebbe fare degli sforzi, sia in termini di promozione sia in termini di prezzo. Voglio fare un esempio: mia figlia studia economia e commercio a Digione, in Borgogna. E nei locali scolastici riservati agli studenti trovare del vino per festeggiare non è semplice. Mentre appena fuori dalla scuola c’è un negozio che vende vodka, pastis… È uno scandalo! Certo, parte del problema è di tipo economico. Una birra costa molto meno di un bicchiere di vino. E poi il mondo del vino ha creato dei complessi: se non sei un intenditore hai paura di fare brutte figure, mentre una birra di beve in modo più rilassato…»
Thuizat rincara la dose: «Nel 2023 per la prima volta la birra è diventata la bevanda alcolica più consumata in Francia. Il vino ha spesso un’immagine vecchia e stantia per i giovani. È davvero una brutta cosa. Credo che serva più conoscenza reale, e una comunicazione più efficace. Se esistesse un “Top Chef” per i sommelier io sarei solo favorevole. Il livello di formazione delle scuole alberghiere è ancora troppo basso. Certo, poi c’è anche un problema economico: nella ricerca del rapporto qualità/prezzo i professionisti del settore possono e devono fare di meglio».