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Quale che possa essere l’esito della guerra a Gaza, una cosa è certa: il Jewish moment in Nord America – quell’età dell’oro che ha visto l’accettazione, la libertà, il rigoglio degli ebrei in questo continente nonché il loro contributo culturale – è finito. Questo periodo è andato avanti per più di mezzo secolo: è durato meno dei novant’anni di fortuna succedutisi sotto gli Asburgo, prima che la Germania nazista ponesse fine a quell’epoca, ma, se uno è ebreo, sa che non si tratta, comunque, di una durata disprezzabile
Il Jewish moment è stato un’anomalia, una conseguenza dell’Olocausto e della vergogna europea che ne è derivata, assecondata, per il senso di colpa, dall’Onu. E, anche se non è stato evidente fin dopo il massacro di ebrei in Israele compiuto il 7 ottobre scorso da Hamas, questo periodo eccezionale per gli ebrei nordamericani, che è il periodo nel corso del quale sono nato, aveva già iniziato a tramontare con l’inizio del millennio, pochi giorni dopo l’11 settembre – e questo, come ogni ebreo esperto aveva previsto, era tutto il tempo che sarebbe servito prima che la colpa venisse fatta ricadere su Israele. Quello è stato l’inizio della fine del Jewish moment nel continente nordamericano, e le nuove ondate di immigrazione e la labilità della memoria umana hanno reso tutto più rapido.
Questa età dell’oro per gli ebrei non sarebbe potuta accadere né in Europa né in alcuna altra parte del mondo, a parte Israele. Certo, dopo la Seconda guerra mondiale gli ebrei europei e britannici se la sono passata meglio di prima, ma, al di fuori del Nord America, il modo in cui gli ebrei e i loro stessi comportamenti sono stati percepiti è sempre stato un terreno minato, a causa della storia, dal nativismo dei risentimenti e dell’antisemitismo che non è stato eliminato del tutto dall’Europa nonostante l’esibita volontà di redenzione delle Nazioni Unite e l’atteggiamento conciliante verso il sionismo.
Israele, com’era avvenuto anche nel caso della colonia britannica della Sierra Leone e degli schiavi neri liberati nel Diciottesimo secolo, era, dopo tutto, anche un modo per le classi dirigenti britanniche di sbarazzarsi degli ebrei, che molti consideravano troppo intraprendenti – si può citare, ad esempio, la memorabile opinione espressa da David Lloyd George, primo ministro britannico all’epoca della Dichiarazione Balfour, riguardo al suo collega di gabinetto ebreo Herbert Samuel, definito «avido, ambizioso e arraffone».
Negli Stati Uniti e in Canada si poteva invece davvero immaginare un nuovo inizio. Certo, anche in Canada e negli Stati Uniti esisteva l’antisemitismo, come dimostrano gli sproloqui autopubblicati di Henry Ford, i disordini di Christie Pits a Toronto [il riferimento è a una breve esplosione di antisemitismo che ebbe luogo nel 1933 in quella città, ndr] e l’opinione – «Neanche uno è già troppo» – espressa da un funzionario del governo di Mackenzie King riguardo agli immigrati ebrei che fuggivano dalla Germania nazista e arrivavano sulle coste canadesi [e all’opportunità di accoglierli, ndr].
Ma, mentre in Inghilterra, nel Dopoguerra, gli ebrei erano rimasti vincolati a un sistema di classi straordinariamente resistente che determinava le chance di avere successo, in Nord America quelle stesse chance di avere successo furono progettate dagli ebrei stessi, che non solo riuscirono a entrare, in alcuni casi, nel novero dei ricchi o ad affermarsi tra i professionisti e a ottenere potere politico, ma lasciarono anche un segno straordinario nella letteratura, nell’arte, nel teatro, nella commedia e nel mondo della musica.
I nomi sono troppi per citarli tutti: Saul Bellow, Irving Berlin, Leonard Bernstein, Mel Brooks, Lenny Bruce, Leonard Cohen, Nora Ephron, Helen Frankenthaler, Maira Kalman, Tony Kushner, Philip Roth, Neil Simon, mio padre Mordecai Richler… La cultura aiuta le persone che appartengono alle comunità che vengono marginalizzate e considerate “altre” a fare dei passi in avanti e, perlomeno in un mondo che funziona, fa sì che il pregiudizio si trasformi in apprezzamento. Ma mi spingerei più in là, fino ad affermare che in Nord America, nel secolo scorso, ci sia stata una notevole interconnessione tra la sensibilità culturale ebraica e il progetto americano. Una dialettica accesa, l’inclinazione al dibattito e il non dare nulla per buono sono alcune di quelle caratteristiche fondamentali dell’essere ebrei che vengono insegnate come comportamenti esemplari nei commenti rabbinici del Talmud e che permettono di mettere in discussione perfino i principi fondamentali dell’ebraismo e, nel Nord America laico, beh… tutto.
Questa propensione non per la blasfemia, ma per un approfondimento delle cose – a volte acuto, a volte malizioso e sempre indagatore – si accompagnava perfettamente con quella capacità di lasciarsi alle spalle ciò che si è stati in precedenza che costituisce una parte essenziale della realizzazione del Sogno americano. E ha visto romanzieri, comici e cantautori ebrei affermarsi attraverso dei percorsi che in Gran Bretagna e nel resto d’Europa, terre in cui i percorsi da seguire sono prestabiliti, sarebbero stati impraticabili. Questo impegno per emergere, così sgradevole per le classi superiori inglesi che preferiscono invece – secondo le parole di un altro primo ministro, Herbert Asquith – la «tranquilla consapevolezza di una superiorità senza sforzo», in America è invece solo un’ambizione degna di essere ammirata.
Alcune maree successive, però, hanno ripulito la spiaggia nordamericana per permettere ad altri gruppi di sbarcare e di lasciare il segno. E ora gli ebrei, in virtù del loro successo, sono ormai visti come parte dell’establishment. Gli ebrei non sono considerati degli alleati – come lo furono per gli afroamericani durante l’epoca della lotta per diritti civili – ma dei “white-adjacent”, dei “compagni di strada dei bianchi” che è meglio evitare. Viviamo, oggi, in un’epoca in cui la nostra “comune umanità” conta meno del particolare, delle differenze identitarie che vengono così spesso sbandierate per distinguere una comunità.
Forse è solo un fenomeno di passaggio, ma, almeno per ora, qualsiasi elemento che possa accomunarci vacilla di fronte all’imperativo, per nulla accomodante, di fornire un’equa rappresentanza – cosicché, se prima gli autori ebrei dominavano gli scaffali delle librerie, il cinema, Broadway e la televisione, ora è improbabile che la storia scritta da un ebreo venga scelta, per esempio dalla CBC, rispetto alla storia scritta da un nero, da una persona che appartiene a un popolo indigeno, da un asiatico, da qualcuno originario del subcontinente indiano o da un musulmano. E questa è anche una cosa positiva e opportuna: i romanzi ebraici non sono più una novità, e le loro storie e il loro linguaggio sono ormai familiari a chiunque, mentre tutti i lettori, così come tutti i finanziatori di una qualsiasi attività artistica, desiderano ardentemente, com’è giusto, qualcosa di inedito che possa insegnare cose nuove. Attraverso l’arte impariamo a conoscerci e a condividere gli spazi, reali e astratti, in cui viviamo. Le storie di altre comunità stanno rinvigorendo le arti ed è un bene che sia venuto il loro turno.
Ma per gli ebrei c’è un aspetto negativo connesso a questo allontanamento dai riflettori e alla conseguente diminuzione di interesse che è nell’ordine storico delle cose quando si parla dei fenomeni di immigrazione e assestamento delle varie comunità.
Infatti, quell’integrazione degli ebrei nella vita del posto che la scrittrice e critica Dara Horn, autrice di People Love Dead Jews [Le persone amano gli ebrei morti, ndr], ha definito la “fantasia” della diaspora riguardo all’accettazione, in realtà, in Nord America, c’è stata davvero. E quell’accettazione è stata doppiamente importante per gli ebrei perché costituiva, nella seconda metà del Ventesimo secolo, una sorta di specchio dell’istituzione dello Stato di Israele (uno Stato per un popolo senza Stato) e delle speranze che essa rappresentava. Perché la cruda verità è che la perdita del senso di sicurezza in uno di questi due luoghi – il Nord America o Israele – porta con sé un pericolo esistenziale. Non c’è posto in America oppure non c’è posto in Israele: entrambe queste cupe prospettive fanno presagire una reiterazione di quella precarietà che gli ebrei hanno conosciuto per due millenni in Medio Oriente e in Europa. In Canada – a Montreal, a Toronto, a Vancouver – sono già state vandalizzate delle sinagoghe. E, sempre a Toronto, qualcuno ha esploso dei colpi di arma da fuoco verso una scuola per ragazze ebree e sulle vetrine di una libreria sono stati appiccicati dei manifesti con il volto della proprietaria ebrea imbrattati di vernice rossa (si è trattato di una legittima manifestazione di protesta e di libertà di parola, hanno sostenuto i professori universitari coinvolti).
Come si è arrivati a questo? Beh, tanto per cominciare, attraverso la semplice demogra fa: le ondate di immigrazione ebraica del Ventesimo secolo sono state ampiamente sostituite dall’arrivo in questo continente di altri popoli le cui storie traumatiche non si intrecciano con quelle degli ebrei oppure le contraddicono. Un secolo fa, nel 1921, in Canada c’erano 126.196 ebrei, mentre in tutto il Paese i musulmani erano meno di cinquecento (478, per essere precisi). Nel 2021, un secolo dopo, in Canada c’erano 335.295 ebrei, una cifra che è rimasta abbastanza costante per decenni, e 1.775.715 musulmani, un numero che è previsto che cresca di un altro milione entro il 2030. Gli ebrei sono stati quindi enormemente surclassati, quanto ai numeri, da altri immigrati che arrivano soprattutto da Paesi in cui l’antisemitismo è la norma, e tutto ciò è avvenuto in un’epoca in cui lo spostamento di una persona dal Paese di partenza a quello di arrivo non è più per forza permanente (nel 2006 lo scrittore libanese-canadese Rawi Hage, visto che molti si facevano delle domande sul patrimonio dei circa quattordicimila canadesi che fuggivano dalla guerra in Libano, disse: «Non solo i ricchi possono avere due case»).
Oggi un migrante si muove liberamente avanti e indietro tra il suo luogo di origine e quello in cui si è trasferito e, di conseguenza, è più probabile che mantenga le sue opinioni pregresse senza che queste vengano modi fcate dai sogni e dai “valori”, quali che siano, del nuovo Paese. Diversamente, i migranti del Ventesimo secolo e del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale – come gli ebrei e, prima di loro, gli irlandesi e gli slavi – faticavano ad attraversare il confine e, di norma, quando si trasferivano erano quindi convinti di lasciare per sempre il luogo da cui partivano. I politici sono stati costretti a riconoscere i cambiamenti derivanti dalla demogra fa (siamo delle democrazie, dopotutto), anche se molti di loro non li avevano visti arrivare. E sono stati costretti a farlo soprattutto dal momento in cui questi cambiamenti hanno sperimentato una bruschissima accelerazione dovuta all’ingresso nel dibattito sociale e politico di giovani generazioni per le quali termini come “Olocausto” e “genocidio” hanno dei signifIcati nettamente diversi da quelli con cui erano intesi in precedenza.
L’“Olocausto” non è più un rogo in senso letterale: ormai è su fciente una convergenza di circostanze orribili che possono persino essere accidentali. Un “genocidio” non è più la realizzazione del tentativo meticolosamente piani fcato e organizzato di sterminare uno speci fco popolo che sia stato preso di mira. Quello che oggi viene definito genocidio può essere un genocidio culturale oppure, come stiamo vedendo oggi a Gaza, può essere una campagna militare devastante, disastrosamente maldestra e, in ultima analisi, autolesionista, che è il portato della profonda e inalienabile paura esistenziale di una popolazione gravemente ferita, della quale nessuno sembra aver voglia di comprendere (e, ancor meno, di giusti fcare) le ragioni.
In quest’epoca in cui si ritiene che l’“esperienza vissuta” sia, in ultima analisi, ciò che convalida una verità, il modo in cui gli ebrei ricordano sia l’Olocausto sia il tentativo di genocidio nazista non è più condiviso. Le atrocità della Seconda guerra mondiale sono ormai quasi fuori dalla portata dei ricordi in prima persona. Gli eventi a cui gli ebrei fanno riferimento appartengono alla Storia e sono, di fatto, superfui. Non appartengono a questa generazione, e sono utili solo come armi da rivolgere contro Israele e contro gli ebrei “sionisti” da parte degli attivisti e anche di quei governi – in Colombia, Nicaragua, Russia, Sudafrica, Turchia – che traggono benefcio dal tentativo di distrarre i propri cittadini. (Sì, un tempo pensavo che essere antisionisti o anti-israeliani non signifcasse necessariamente essere antisemiti, ma ora che tutti quelli che vivono in Israele, “dal fume al mare”, sono considerati dei coloni, beh, non ne sono più così sicuro).
Quello che la disastrosa conduzione della guerra a Gaza da parte del governo Netanyahu ha provocato – oltre a una catastrofe, oltre a una seconda Nakba – è un’autorizzazione: i vecchi stereotipi calunniosi sono capaci di evolversi in modo così sottile che finiamo per non riconoscerli e li accogliamo quindi come se fossero una notizia inedita. L’“accusa del sangue”, che risale al Medioevo, rende gli israeliani a Gaza degli ebrei sterminatori che non solo assassinano bambini e neonati, in base a una strategia deliberata e premeditata, ma, dal momento che è stata bombardata una clinica per la fertilità, massacrano anche, intenzionalmente, i loro nemici perfino prima che nascano.
Inoltre, continua ad aggirarsi anche l’eterno spauracchio della cospirazione ebraica internazionale e del denaro che essa controllerebbe, uno spauracchio che anima silenziosamente il rinnovato movimento Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (Bds) e le istanze degli studenti che chiedono alle università di non accettare finanziamenti dai produttori di armi o dai fondi che apparentemente aiutano Israele, persino quando non c’è prova alcuna dell’esistenza di rapporti finanziari di questo tipo – e, cosa signifcativa, costoro non fanno mai menzione di quali sarebbero, secondo la loro visione del mondo, degli investimenti legittimi in una qualsiasi cosa israeliana.
(…) È una cosa strana, l’antisemitismo. È un fagello che non ho ancora compreso. Mi sono letto un bel po’ di studi, di storie, di polemiche e conosco le solite spiegazioni. Gli ebrei assassini di Cristo. Gli ebrei “popolo eletto”, cosa che irrita quelli che apparentemente non lo sono («Gli ebrei sono intelligenti… Voglio dire: non ci sono ebrei in prigione, no?», diceva il notevole antisemita che ero da giovane). Gli ebrei, impossibilitati a detenere delle proprietà, che lavoravano come usurai ed esattori delle tasse ed erano quindi facili bersagli di odio. Gli ebrei, la detestabile congrega dei Protocolli dei Savi di Sion. Le Crociate che esportarono l’antisemitismo in Medio Oriente. E così via.
Nessuna di queste cose, però, mi convince del tutto, perché nessuna di queste cose spiega davvero la strana e vischiosa capacità corruttiva dell’antisemitismo, quel puro piacere, che molta gente prova, di incolpare, odiare, punire e uccidere gli ebrei che Jean-Paul Sartre definì una “passione”. («Guarda quanti ne ho uccisi con le mie mani! Tuo fglio ha ucciso degli ebrei! Mamma, tuo fglio è un eroe!», si vantava uno dei terroristi di Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre). L’antisemitismo è un’abitudine millenaria che si trasforma costantemente e brillantemente: è colpa degli ebrei, che sono comunisti, no, aspetta, sono capitalisti. Gli ebrei controllano i media, gli ebrei controllano il mondo, guardate dove ci hanno portato.
Io sono quello che può essere definito un ebreo “culturale”, “etnico” o “senza Dio”. Nessuno della mia famiglia è un sopravvissuto a un campo di sterminio. Sono cresciuto nella upper-middle-class di Montreal, sentendomi sicuro e amato e senza che mi mancasse nulla. Eppure, fin da quando ero ragazzo, mi sono svegliato di soprassalto, esausto e terrorizzato, a causa di incubi che avevano a che fare con l’Olocausto. Vedevo bulldozer che spingevano corpi in una buca. Annegavo con altri negli escrementi. Difendevo me stesso e gli altri da un demone che brandiva un coltello, avendo come scudo un cuscino imbottito di piume. Case in famme, aerei in famme. Io che conducevo persone terrorizzate verso l’uscita. Non ho mai dovuto intraprendere imprese eroiche di questo tipo, eppure le sogno ancora, benché io abbia conosciuto solo un’innocua tipologia canadese di antisemitismo. Niente che fosse vicino a me. Niente di minaccioso. Tutto questo fino al 7 ottobre, quando si è impadronito di me qualcosa di completamente nuovo, una specie di Covid della mente che mi ha lasciato nauseato e difdente, con il corpo teso, attento e preparato a incontri spiacevoli – e persino alla violenza. Si trattava, io credo, di una ritirata, di una prudente ritirata nel carapace ebraico del tempo che fu.
E non sono stato l’unico. Nello scorso aprile, io e mia moglie siamo stati a Saint John, nel New Brunswick, per assistere a una serata musicale con la star televisiva e teatrale ebreo-americana Mandy Patinkin. Mentre ci dirigevamo verso l’Imperial Theatre, abbiamo incrociato, ogni dieci metri o giù di lì, gli slogan “Palestina libera” e “Fermate il progetto sionista” scritti con le bombolette spray sul marciapiede. Quello stesso pomeriggio, c’era stata la manifestazione di un gruppo di persone che indossavano la kefah e, a guidare gli slogan che avevano scandito mentre si dirigevano verso King Street, c’era un giovane bianco, probabilmente uno studente, che gridava nel suo megafono: «Mettete fine allo Stato sionista illegale».
Non avevo motivo di sentirmi in ansia. Saint John è di norma una città tranquilla: non è un fulcro dell’attivismo e nessuno aveva pensato di picchettare il teatro. Ma, visto che viviamo in un’epoca in cui nessuno spettacolo, e soprattutto nessuno spettacolo di un ebreo, può iniziare senza un qualche tipo di riconoscimento degli orrori che avvengono in Israele e in Palestina, mi chiedevo quale forma avrebbe assunto questo riconoscimento.
Con una scelta brillante, Mandy Patinkin, che fa parte del board dell’organizzazione Peace Now, ha lasciato che fossero i compositori ebreo-americani di Broadway di cui ha scelto di eseguire le opere a rivendicare il posto che gli ebrei hanno in Nord America e il notevole contributo culturale fornito dalla tradizione umanistica ebraica. Patinkin ha cantato, dal musical South Pacifc di Rodgers and Hammerstein: «Bisogna che ti insegnino prima che sia troppo tardi Prima che tu abbia sei, sette, otto anni A odiare tutte le persone che i tuoi parenti odiano Bisogna che te lo insegnino per bene».
E poi dal musical Into the Woods, in cui il compositore Stephen Sondheim rende omaggio ai suoi antenati ebrei, ha cantato: «Attenti all’incantesimo che lanciate Non solo sui bambini. Talvolta un incantesimo può durare Più di quanto possiate prevedere E può rivoltarsi contro di voi»,
Prima di concludere la serata con “Over the Rainbow” di Harold Arlen, il capolavoro della nostalgia di un luogo sicuro, la trovata struggente di Patinkin è stata quella di cantare in yiddish dei brani di Yip Harburg. È stato straziante. Forse perché è sembrato che anche qualcun altro si fosse ritirato nel carapace e che gli ebrei fossero ridotti, di nuovo, a sognare. No, la buona giornata degli ebrei in Nord America non è ancora finita, ma il crepuscolo è già qui e quella luce corroborante si sta affievolendo..
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