Gloria di ghiaccio L’epopea di Jacques Balmat e Michel Paccard verso la vetta d’Europa

Nel romanzo “La montagna non dimentica” (Solferino), i fratelli Aldebert si fanno portavoce della conquista delle Alpi e dipingono la storica ascesa al Monte Bianco del 1786 come un ricordo indelebile nella vita dei due pionieri

La salita verso la cima è scomparsa e non resta che un gigantesco terreno, caotico, che si solleva in immensi denti di ghiaccio immobili. Come inoffensivi, tristi mostri, fronteggiano i due compagni persi in questo inferno bianco.

I due uomini proseguono a stento. Il loro andare non è più nemmeno una scalata. Jacques Balmat e Michel Paccard errano in questo labirinto, a metà della loro ascesa. Cercano una via d’uscita. Ma soprattutto, perdono tempo. Dopo ogni ostacolo che emerge dalla struttura della montagna, un crepaccio oscuro sbarra loro il cammino. Aggirarli è sempre laborioso. A volte si offre un fragile ponte di neve. Con estrema cautela, si avventurano allora sopra l’abisso. E a metà della traversata, uno dei due, Michel Paccard, osserva con terrore il vuoto insondabile sotto di lui. Ha vagamente coscienza del grande pericolo che vi si annida?

Sopra il crepaccio, Michel Paccard avanza faticosamente. D’un tratto, il ponte cede sotto il suo peso. Paccard salta allora di lato, di pancia, appoggiandosi su due bastoni di ferro, posati orizzontalmente sulla neve, per non bucare il resto di quel guscio d’uovo che potrebbe rompersi da un momento all’altro. La grande faglia di ghiaccio, che sprofonda fino nell’anima della montagna, lo risucchia e lui, immobile, è preso dal terrore. Senza corda né piccozza, il suo compagno è decisamente mal equipaggiato per aiutarlo. L’alpinista si fa il più leggero possibile e si trascina, a gattoni, cercando di distribuire al meglio il peso del suo corpo su quello che resta del ponte di neve.

La coppia riprende con fatica la marcia. Dopo aver attraversato il ghiacciaio dei Bossons, che scende dalla cima, manca ancora tutto il resto da percorrere. I due uomini non possono contare che su loro stessi e sulla solida alleanza che hanno stretto per raggiungere la cima del Monte Bianco ed entrare nella storia.

Michel Paccard è medico e botanico. Nato a Chamonix, vuole intraprendere la conquista della più alta montagna d’Europa, ancora vergine nell’anno 1786. Ha già subito diversi fallimenti. E non sono tanto gli incidenti o altre infelici e imprevedibili battute d’arresto a farlo tornare indietro, quanto piuttosto la difficoltà nel trovare un itinerario che porti alla cima. Prima del secolo dei Lumi, mai nessun uomo si era lanciato nell’impresa di scalare quella montagna. La valle di Chamonix, nelle profondità del Regno di Sardegna, era trascurata in favore delle montagne vallesi svizzere. E gli sconfinati ghiacciai di quello che a volte viene chiamato «mont Maudit» dissuadevano allora tutti gli avventurieri. Alla fine dell’Ottocento, più di cento anni dopo la piccola era glaciale che aveva visto la Mer de Glace straripare, minacciosa, nella valle di Chamonix, l’uomo osa finalmente affrontare le proprie paure, disdegnando il demone maligno che avvolge questa pericolosa montagna da tempi immemori.

Il Monte Bianco non è mai stato tuttavia veramente sconosciuto. Non è mai stato avvolto dal mistero come altre montagne nascoste nel profondo delle valli alpine. Visibile anche dalla grande Ginevra, schernisce gli abitanti della città svizzera da secoli, esponendo con insolenza la sua maestosità immacolata. Cosa che gli deve, tra l’altro, quasi trent’anni prima della spedizione di Paccard e Balmat, l’interesse di un illustre studioso ginevrino: Horace Bénédict de Saussure. Il fisico e naturalista effettuò un viaggio a Chamonix nel 1760, durante il quale promise una ricompensa a chiunque avesse trovato un itinerario per scalare la montagna.

Balmat brama questa ricompensa. Contadino senza un soldo, Jacques Balmat lavora la terra come i suoi genitori e i suoi nonni prima di lui. Per arrotondare i guadagni, e come hanno fatto sempre le generazioni che l’hanno preceduto nella valle, esplora le alte montagne del massiccio per estrarre i quarzi, vecchi di milioni di anni, che sono spuntati dalle profondità cocenti della crosta terrestre. Nel Regno di Sardegna, i tagliatori si contendono quest’oro bianco per trasformarlo in lampadari, candelabri o semplicemente in gioielli da vendere a Torino o esportare nelle grandi città italiane. A volte, il cristallo di roccia viene acquistato nella sua forma grezza da ricchi turisti inglesi alla ricerca di qualche curiosità per il loro gabinetto.

Ma per Balmat, la caccia ai minerali e il lavoro della terra non bastano. Un bel giorno, si reca dal dottor Paccard per curare sua figlia malata. Il medico di Chamonix lo impressiona. Lui, borghese di buona reputazione, è il compagno di cordata perfetto per tentare la salita al Monte Bianco. Saprà testimoniare la loro impresa e garantire la loro fama. Si potrà occupare dei preparativi sia materiali che finanziari. E in più, Paccard è un montanaro. Ha già partecipato, anche lui, ad alcune spedizioni di ricognizione. Al tempo stesso, un’alleanza con il dottore permetterebbe inoltre di tutelarsi rispetto a un pericoloso rivale.

Infatti, la competizione imperversa, e i concorrenti sono senza scrupoli. Balmat ha rischiato di farsi rubare l’ascesa nel giugno passato. Mentre tornava da un’estenuante ricognizione in alta quota, ha incrociato due uomini, uno dei quali cugino del dottore, che gli hanno assicurato di essere in partenza per la caccia al capretto selvatico. Balmat non è un letterato, ma non è nemmeno uno stupido. Gli ha risposto a tono, restituendogli scherzoso la loro menzogna. Anche lui era a caccia di capretto, ma rientrava a mani vuote. A mani vuote e con i vestiti ancora congelati dal suo lungo pellegrinaggio sul ghiacciaio, consumato dal dislivello che ha appena percorso. Tutto lo tradisce. Non ci casca nessuno. Gli chamoniards recitano la commedia. Balmat torna a casa, si cambia, dà un bacio a sua figlia malata e riparte di corsa per raggiungere i due rivali, che lo accolgono senza troppo entusiasmo. Non si farà rubare la vittoria.

Due mesi più tardi, il contadino e il dottore hanno quindi effettuato i loro preparativi in totale segretezza. Paccard ha studiato l’itinerario. Ha in mente un’idea molto precisa, che confida a Balmat. Diversi anni prima, il dottore aveva ipotizzato per la prima volta di poter passare per il ghiacciaio Tête-Rousse, che porta alla lunga cresta del Goûter – oggi la via normale per accedere alla cima. Giudicato troppo ripido, questo itinerario viene trascurato in favore di altri tre che sembrano essere più accessibili.

Il primo, dal ghiacciaio del Tacul, risalendo la Mer de Glace, viene rapidamente scartato. Troppo lungo, troppo impegnativo. Il secondo consiste nel risalire il Dôme du Goûter, poi la cresta delle Bosses per arrivare in cima. Quest’ultima, considerata impervia, sovrasta le vertiginose pareti del versante sud. Infine, lo chamoniard opta per la terza soluzione: un itinerario diretto partendo da Chamonix.

Il 7 agosto 1786, i due uomini lasciano il borgo con molta discrezione. Solamente le loro mogli sono a conoscenza, in totale confidenza, dell’obiettivo della spedizione. Una commerciante vende loro dello sciroppo per diluire la loro acquavite e il loro vino. La invitano a mantenere il segreto e a cercare con attenzione il giorno dopo le loro silhouette sulla cima della montagna.

Balmat e Paccard risalgono la Montagne de la Côte durante il primo pomeriggio. Questa spalla coperta prima da foreste spinose e poi da roccia si aggrappa dal fondo della valle fino al centro del monumentale ghiacciaio dei Bossons, che si estende da una parte all’altra del vallone. Al suo apice, i due uomini assaporano un’ultima volta la terra ferma, minerale, secca, quando già si trovano nel cuore di un universo bianco. Da qui, sentono i gemiti be- stiali di una montagna che si muove, sofferente sotto il peso dei ghiacciai che la scavano. Come carne viva, si agita e cede sotto il sole cocente di quella giornata estiva, mentre il suo scheletro geme. A Chamonix, il termometro indicava 12°C. Alla sera, quando Balmat e Paccard si distendono in un rifugio di pietra, la temperatura è decisamente crollata.

Il giorno dopo, i due intraprendono la laboriosa traversata del ghiacciaio per raggiungere gli alti pianori sotto la cima. Qui, i due uomini affrontano mille pericoli. Quattro volte rischiano di scomparire nei crepacci. Riescono finalmente a sbucare sani e salvi nella zona superiore, meno accidentata. Le rocce dei Grands Mulets emergono in mezzo ai ghiacci, come se fluttuassero su un mare di nubi. Lasciandole alla propria sinistra, Paccard e Balmat si rituffano nella bianca discesa in direzione del Dôme du Goûter. A più di tremila metri, l’altitudine schiaccia i loro polmoni. Inspirano più a lungo e profondamente. I polmoni cercano nell’aria fredda l’ossigeno che si rarefa.

Balmat aveva inizialmente espresso una preferenza per l’itinerario del Dôme du Goûter che aveva esplorato due mesi prima. Dopo un lungo cammino, il contadino si era ritrovato a un’altitudine notevole da solo, poiché i suoi compagni l’avevano abbandonato, stravolti. Lui stesso estenuato, aveva continuato volente o nolente, arrivando da solo sotto la punta. Una nuvola nera, arrivata da nord, sbarrava l’orizzonte. Gli restava forse meno di un’ora per arrivare in cima, se non di più, visto il suo livello di fatica.

Balmat camminava sempre più lentamente, facendo persino fatica a raccogliere i propri pensieri per valutare la situazione. Non aveva più acqua e l’aria molto secca di quell’altitudine disidratava il suo corpo, dentro al quale circolava a fatica un sangue come inspessito. Si muoveva senza pensare, ascoltando soltanto le sue tempie che ronzavano dolorosamente. L’atmosfera diventava sempre più scura. In un ultimo momento di lucidità, Balmat decise di fare dietrofront. Quel giorno, era diventato l’uomo ad aver raggiunto la maggior altitudine delle Alpi. Si era ripromesso di conquistare la cima e quell’impresa l’aveva convinto delle proprie capacità, e del suo futuro successo.

Durante quel tentativo del 7 agosto, Paccard insiste per non seguire l’itinerario del Dôme. Secondo il suo stesso resoconto dell’ascesa, il dottore invita il suo compagno a seguire invece la cresta sud. E lo convince a risalire le grandi distese di ghiaccio, senza ripercorrere il suo cammino.

Sbucando sul grande pianoro sotto la cima alle tre del pomeriggio, i due uomini devono percorrere un lungo tragitto, a più di quattromila metri d’altitudine, cosa che rende lo sforzo ancora più intenso. Paccard è estasiato. «Da lì, si vede unicamente neve, di un biancore puro e accecante, che contrasta stranamente con il cielo quasi nero» racconterà. In quota, l’uomo si avvicina all’atmosfera e la volta celeste gli appare più pura, più intensa e più oscura. Cova nel suo blu profondo il bianco dei ghiacciai caotici nella corte di guglie rosse, e lo fa da quando la Terra si è stabilizzata al di fuori del caos. Paccard è stanco, a meno che non lo sia Balmat: i racconti a questo punto divergeranno. La guida porta un pesante carico, costituito dal bivacco e dagli strumenti scientifici di misurazione del dottore. Batte strada, in una neve molle nella quale i piedi affondano. La fatica è estrema. Ma la cima non è più così lontana.

Davanti a loro si erge un ultimo ripido pendio. Il sole sta scendendo, perde la sua battaglia quotidiana di fronte all’immensa ombra della montagna. La neve si trasforma in marmo, e la superficie così marmorea si riserva il diritto di trascinare gli alpinisti verso l’abisso al minimo passo falso. I due compagni devono ormai intagliare dei gradini con la punta metallica dei loro bastoni. Senza ramponi, la caduta sarebbe impossibile da frenare.

Il freddo morde. Balmat offre un guanto di lana a Paccard, le cui dita stanno congelando dentro i guanti in cuoio. Quest’ultimo passa in testa alla cordata, mentre un vento forte da nord-est ulula sulla cima. Una folata porta via il cappello del dottore. Il prezioso copricapo che protegge dal riverbero del sole svanisce in un istante nel cielo italiano. Sono già le 17:45. I due uomini possono continuare a rischio di scendere con le tenebre della notte?

A meno di trecento metri dalla cima, gli alpinisti trovano un ultimo salto di roccia. Il medico raccoglie qualche campione. Il contadino cerca inutilmente un posto per montare un campo improvvisato. Ma ripartono, decisi a raggiungere la cima prima della fine della giornata.

Questa si delinea a mano a mano che la salita si addolcisce. Nessun picco, nessuna punta né guglia, la vetta si rivela una timida cresta di neve, modesta e saggia. Paccard avanza fino a calcarla, e Balmat corre per raggiungerlo. Trionfano. L’immensità delle terre si offre al loro sguardo vittorioso, fino all’orizzonte. Ai loro piedi si prostrano le grandi punte del massiccio, ma anche le montagne più lontane, a cominciare dalle cime delle Aiguilles Rouges e, nascoste nelle velature dell’atmosfera, le punte dell’Oisans a sud, e le Alpi svizzere e italiane. Al contrario, le basse realtà del mondo, come il lago Lemano, o le pianure francesi e lombarde, sono nascoste dalle nubi, lasciando gli spettatori tra di loro sulle alte cime. Il dottore riesce a distinguere, nonostante ciò, la valle del Rodano e la pianura di Ginevra dove danzano gli ultimi raggi del sole, tra le drappeggianti ombre delle Alpi.

Quale sentimento anima, in questo preciso momento, colui che associa per l’eternità il suo nome a questa montagna regina? «Somiglia all’uomo arrivato al culmine dei suoi desideri e che, non avendo più niente da desiderare, non è completamente soddisfatto.» Horace Bénédict de Saussure, che racconta un anno dopo la sua ascesa guidato da Balmat stesso, esprime senza dubbio nel modo più elegante il sentimento di estrema realizzazione dell’alpinista, misto a questa sete d’infinito che lo anima, sete per definizione insaziabile. Stanco sulla cima, l’intellettuale ginevrino non assapora veramente la sua vittoria sulla montagna se non la sera, addormentandosi nel bivacco. Si ricorda il paesaggio unico che cerca di dipingere nel suo spirito. Ma il quadro già invecchia. Invoca i colori e le linee, ma queste si cancellano.

Paccard e Balmat sicuramente faticano ad assaporare l’importanza di questo momento storico. L’emozione si salda nel loro spirito in quel momento di gloria? Il dottore lo descriverà come il ricordo più significativo della sua vita.

Tratto da “La montagna non dimentica” (Solferino) di Mayeul e Aubin Aldebert, pp. 192, 17.50

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