Le interviste a Oliviero Toscani sono un genere letterario ormai da molti anni. Avvengono nella formula juke-box: gettone, sagacia, gettone, sagacia. Salvifiche in un posto in cui i giornali non sanno far dire cose agli intervistati, e tuttavia si ostinano a riempirsi d’interviste. A un certo punto in riunione qualcuno dice «chiama Toscani», e sai che domani almeno una pagina brillante ce l’avrai.
Ieri sul Corriere c’era un’intervista a Toscani uguale a tutte le altre. Piena di sagacia. Il sindaco di Sant’Anna di Stazzema che gli chiede di fare le foto di una strage senza sopravvissuti, visto che è così bravo, «e riattaccò, ’sto stronzo». Sinner che «non è italiano. L’italianità è Fabrizio Corona». Il vitalismo di chi ha voluto sempre fare di più, ha sempre avuto il terrore che il tempo non bastasse, «Non ho mai dormito fino alle 9, neppure la domenica».
Però quella che gli ha fatto ieri Elvira Serra è un’intervista diversa da tutte le altre. Domanda: «Le dispiace che sia andata così?». Risposta: «Mi domando se non sarebbe stato meglio un problema di demenza, ma con un corpo sano. Sarebbe stato peggio per gli altri».
Com’è peggio morire? È la domanda che ho passato la mattina di ieri a fare e farmi fare da tutti quelli che avevano letto le parole di Toscani, che ha una malattia incurabile e sta aspettando di morire. (Non dico «malattia incurabile» perché sono diventata eufemista, ma perché «amiloidosi» non vi direbbe niente). «Quando ho detto al mio amico Luciano Benetton che avevo una malattia rara lui mi ha risposto: “Oliviero, tu sei nato con una malattia rara!”».
Un’amica ieri mattina mi ha detto che lei è sicurissima di volere la morte di Flavia Prodi: senza agonia, senza decorso, senza attesa. Io non ne sono altrettanto certa, e infatti alla fine d’ogni anno butto trecento euro per comprare un’agenda della Smythson su cui prometto a me stessa che l’anno successivo inizierò a tenere un diario.
Ma cosa ci scrivi, in un diario? Cosa vuoi che resti, di te? Richard Burton passava da anni in cui annotava tutto quel che mangiava, come fosse una Bridget Jones (certi periodi segnava anche il peso: il diario di Burton andrebbe fatto mandare a memoria a chi delira sull’esclusività femminile dei canoni estetici), ad anni di sproloqui sui massimi sistemi culturali.
Franz Kafka certi giorni annotava giusto due righe: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. Nel pomeriggio sono andato a nuotare» – che se sei Kafka funziona, se io muoio domani diventa la prova che ero scema. Quindi no, non posso tenere un diario: se muoio la notte dello scoppio della terza guerra mondiale, i posteri sapranno che il giorno prima ero riuscita a non accorgermi di niente e a scrivere solo che l’Esselunga aveva tardato con la consegna.
Di recente una psicologa mi ha detto che assai spesso dieci gocce di Xanax le evitano d’andare al pronto soccorso convinta d’avere un infarto, e io ho pensato al numero vergognoso di notti durante le quali sono certa che morirò d’infarto, e mai una volta m’è venuto in mente di prendere un tranquillante (al massimo una cardioaspirina), perché io non penso mai sia agitazione: io penso proprio che sia infarto e che morirò, e che non ho strappato tutte le lettere che non voglio vengano pubblicate dopo la mia morte (la mitomania la riconosci dalla convinzione che qualunque tua lista della spesa verrà pubblicata per pagare i costi del tuo funerale e il marmo con l’angelo che spezza le catene).
Metti che annoto una meschinità perché oggi non m’è successo niente di notevole, metti che poi stanotte muoio: posso sopportare che resti alla storia che l’ultima pagina del mio diario sia «pranzo con L., abbiamo diviso il conto e lei ci ha messo cinque euro di meno»? (Forse sì, in fondo lo sanno tutti che l’unica cosa che noto delle persone è se scroccano o se pagano, non è che sia poi ’sto gran cambiamento rispetto alla mia poetica abituale).
Chissà se Oliviero Toscani tiene un diario. Chissà se perde mai tempo come me a cercare di annotare dieci anni di diari vuoti arretrati ricostruendo spostamenti e fatti da scontrini e messaggi, chissà se si chiede come me se completerà l’opera prima di morire, chissà se l’anticamera della morte la sta usando per illudersi d’avere il controllo su quello che si saprà di lui dopo.
Com’è meglio morire, abbiamo passato la giornata a chiederci noi senza diagnosi terminali, perché è questo che succede, quando racconti la tua morte in pubblico: che il pubblico non pensa poverino te, ma poverino me.
Abbiamo passato la giornata a pensare a quello, e a: bisogna essere raccomandati coi medici, mica solo coi tecnici dell’aria condizionata. A Toscani avevano fatto la diagnosi sbagliata, stavano per operarlo al cuore per qualcosa che non aveva, per fortuna aveva un amico che gli ha portato un primario a casa, per fortuna ha potuto farsi dire che stava morendo senza farsi aprire invano.
La morte è in vendita, e non solo nel modo in cui siamo abituati a osservarla in questi anni, non solo nel consenso e nell’ampliamento della platea di chi racconta la propria malattia ai social. Il più fragoroso dettaglio di morte in vendita che abbia mai visto l’ho notato ieri, leggendo l’intervista di Toscani non sul giornale di carta ma sulla app del Corriere, coi suoi pixel fotografabili e inoltrabili. C’era una foto di Toscani com’è adesso, con quaranta chili meno di prima, e sulla app, per evitare che la foto uscisse da lì senz’alcun vantaggio promozionale per il Corriere, di traverso sulla foto c’era stampigliata gigantesca la testata del giornale.
I meno talentuosi tra i mitomani di questo secolo mettono il loro nome sui meme acciocché tutti quelli che li inoltrano lo facciano senza privarli della paternità dell’opera; perché mai il Corriere non dovrebbe accertarsi che la foto del quasi morto, scattata dal cellulare dell’intervistatrice, non circolasse senza ampliare la platea del giornale.
In colonia a Cesenatico, Oliviero Toscani era «il bambino numero duecentottantasette, mamma me lo cuciva addosso. Lo uso ancora nei lucchetti delle valigie». Forse stare per morire è questo dettaglio piccino: non avere più viaggi davanti, e quindi avere la libertà di dire al mondo la combinazione dei bagagli – tanto hai timori più seri dei piccoli furti aeroportuali.
Forse ha ragione lui sul fatto che era meglio una qualche forma di demenza, massimo terrore delle mie coetanee più o meno di successo: l’Alzheimer è il tema di gran parte del lavoro di Shonda Rhimes, le malattie neurodegenerative sono l’incubo d’un secolo in cui gli adulti sono convinti come tredicenni d’avere il controllo su tutto, dalla reputazione in su. E invece forse noialtre abbiamo torto a ritenere il non sapere più chi siamo il massimo guaio possibile, e Toscani ha ragione: chissenefrega, se tanto non te ne accorgi. Se mi rincoglionisco, è un problema degli altri.
Forse la risposta alla domanda che ho passato vanamente il mercoledì a farmi l’aveva già data lui. La Serra gli aveva chiesto se avesse paura di morire, e lui aveva risposto «Non ho paura. Basta che non faccia male».