Da tanti giorni, forse da tutta la vita, Julio Velasco ci insegna a vivere solo nel presente. Le Olimpiadi del resto sono l’antitesi di qualunque tipo di progettualità applicata allo sport: come fai per esempio a pianificare un oro olimpico se a tre giorni dalla gara della vita ti prende una colica, una tonsillite o addirittura il Covid? Quanto a quella carogna del passato, beh, ci si può solo legare all’albero maestro e tapparsi le orecchie con la cera: e Velasco – grande estimatore di faccende greche – ha avuto tempo a sufficienza per mandare a memoria l’Iliade e l’Odissea.
Nel 1995, dopo aver vinto l’Europeo proprio in Grecia, forse presagendo che Atlanta 1996 non sarebbe stata la marcia trionfale che tutti pensavano, Julio Velasco ci tenne a sottolineare un concetto: «Comunque vada a finire, nessuno ci toglierà i balli che abbiamo ballato». Citò proprio un proverbio argentino, que me quiten lo bailado, per pretendere il rispetto della storia e della filosofia. Andò come andò: l’argento di Atlanta lasciò una sensazione di incompiutezza che aumentò l’affetto attorno alla Generazione di Fenomeni, una squadra che per essere perfetta e totalmente amata aveva proprio bisogno di un difetto. Sono ventotto anni che Velasco combatte con questo fantasma, e a nulla gli sono valsi i razionali tentativi di far capire che un uomo non è solo il ricordo di una brutta giornata, e che la sua carriera da eroe dei tre mondi (a un certo punto era finito anche ad allenare la Nazionale iraniana) è molto più ricca e sfaccettata di quella schiacciata disperata di Andrea Giani sull’asticella di banda.
Così, quando quattro mesi è stato messo anche un po’ per disperazione a capo di quella santabarbara che era la Nazionale femminile di pallavolo, il collegamento è stato naturale e molto indelicato. Fa niente che lo spogliatoio – da Paola Egonu in giù – era stato balcanizzato dalle precedenti gestioni tecniche, fa niente che il medagliere olimpico del volley femminile italiano era piombato sullo zero – zero medaglie, non zero ori. C’era Velasco? Si doveva vincere l’oro. E Don Julio, pur non perdendo occasione pubblica per minimizzare la tensione, se ne rendeva perfettamente conto.
Con Velasco si finisce per forza a parlare di storia, e poi ogni tanto anche a farla. A Parigi 2024 la Nazionale femminile di pallavolo ha smarrito solo un set, ancora mezze in pigiama all’esordio contro la Repubblica Dominicana, poi è diventata un rullo compressore da quindici set vinti su quindici contro Paesi Bassi, Turchia, Serbia, Turchia-bis e Stati Uniti. Nella finale, tanto per dire, undici muri a zero. Tutto è compiuto, all’insegna di una felicità assoluta e finalmente non più rimandabile alle calende greche, testa e cuore, spirito e tecnica, Egonu e Antropova, Orro e Moki, Bosetti e Danesi, Fahr e Cambi, Omoruyi e Giovannini e Lubian, Myriam Sylla che se le sue compagne meritano tutte 10, lei forse 10+.
La gestione di Egonu, in particolare, è da manuale delle risorse umane: dopo un triennio trascorso a litigare silenziosamente col mondo intero, anche per via di una faticosa gestione dei rapporti con l’esterno, Paola è stata giustamente fatta scendere dal piedistallo su cui l’avevamo messa a forza tutti quanti e a quel punto, tornata prima inter pares, ha ritrovato la serenità grazie alla quale è per distacco la miglior marcatrice di ogni partita della Nazionale. Più volte, in questo torneo, Velasco l’ha tolta dal campo attorno al ventesimo punto del set, avvicendandola con Ekaterina Antropova e trasmettendo così un doppio messaggio incrociato. Alle avversarie: non siamo Egonu-dipendenti. A Egonu stessa: non sei la salvatrice della patria, gioca tranquilla. E Paola ha giocato tranquilla. In un’ora e mezza scarsa di finale ne ha messi a referto 22: basta lei per partire un set sopra.
Queste ragazze rimarranno; quest’oro così poco italiano, senza soffrire, trionfando nel sorriso, splenderà per sempre. Adesso Velasco farà un passo di lato, appagato di aver finalmente completato il suo romanzo, e lascerà la ribalta a quelli come noi che avranno voglia e bisogno di spiegarlo e di raccontarlo. Probabilmente tornerà un guru che tutti tireranno per la giacchetta come negli anni Novanta, qualcuno lo candiderà alla presidenza del Coni, qualcun altro gli proporrà di fare il ministro (a occhio, nessuno della presente maggioranza), ed essere riverito è una cosa che in fondo lo ha sempre un po’ compiaciuto – del resto, se non ha qualcosa da insegnarci Velasco, allora proprio non so chi.
Ormai la saggezza e la temperanza sono merce rara, se persino il nostro portabandiera si è lasciato divorare dall’agitazione e dall’ossessione di una cosa grandissima che nessuno pretendeva da lui, al di fuori di sé stesso. Velasco invece è riuscito a realizzare l’imperativo di Orazio: ha colto l’attimo e ha trascinato le sue tredici ragazze nella stessa impresa. «Un lavoro per cui ci vogliono quattro anni noi l’abbiamo fatto in quattro mesi», ha proclamato alla fine con un certo orgoglio, nella spettacolare dimostrazione che a Olympia non conta il futuro e non conta il passato, ma solo la prossima palla.
Sui tornei di volley di Parigi 2024, ventotto estati dopo, aleggiava un senso di predestinazione che adesso mette i brividi: nello stesso weekend hanno vinto le Olimpiadi Giani, Velasco e Bernardi, quest’ultimo nel giorno del suo compleanno, il giorno dopo San Lorenzo. Stelle che cadono, balli che continuano. Nella sua infinita ricerca della felicità, Julio Velasco si è andato a prendere il migliore degli ultimi tango a Parigi.