Un silenzio ingiustificabileOttaviano Del Turco era innocente, il Partito democratico no

La morte dell’esponente politico e sindacalista, coinvolto nella “Sanitopoli” abruzzese, non estingue la responsabilità della sua parte politica per il modo in cui ha lasciato massacrare uno dei dirigenti più in vista, inchinandosi silente ai decreti di una giustizia impazzita

(La Presse)

La figura di Ottaviano Del Turco, morto sabato scorso, avrebbe meritato ricordi meno imbarazzati e condizionati dalle accuse per la presunta “Sanitopoli” abruzzese, che nel 2008 ne decretarono la fine politica e da una vicenda giudiziaria che alla fine, dopo appello e Cassazione, rottamò la «montagna di prove schiaccianti» che la Procura di Pescara annunciò di avere in mano già al momento del suo arresto, ma ne preservò, per quanto farlocca, almeno una, perché il lavoro degli inquirenti e il responso dei giudici di primo grado non venisse completamente smentito.

Del Turco è stato tante cose, tutte decisamente ragguardevoli – dirigente sindacale, parlamentare nazionale e europeo, ministro, presidente di regione – e tutte segnate da una appartenenza socialista rivendicata, che gli dev’essere costata più di un sospetto a sinistra sia nel momento della fama che in quello della disgrazia.

Poteva finire onorevolmente la vita come il suo corregionale Franco Marini, anche lui figlio di una famiglia povera e numerosa della montagna aquilana e arrivato ai vertici della Repubblica dopo una lunga e fortunata militanza sindacale. L’ha finita invece, agli occhi dei più, nel modo più immeritato e umiliante, come una sorta di Formigoni della bassa Italia, un impresentabile elargitore di favori e scroccone di quattrini dai signori della sanità privata.

L’avvocato difensore di Del Turco, l’ex presidente dell’Unione delle Camere Penali Giandomenico Caiazza, ha riassunto qualche anno fa lo svolgimento delle inchieste e dei processi kafkiani che hanno coinvolto e distrutto l’ex presidente dell’Abruzzo in due articoli pubblicati sul Riformista, a cui si rimanda per una lettura che sarebbe perfino divertente, se fosse la sceneggiatura di una tragicommedia dell’assurdo, ma è invece disperante (e, come dice giustamente Caiazza, nauseante), dal momento che descrive uno spaccato reale e purtroppo emblematico del funzionamento della giustizia italiana.

Del Turco è finito in una trappola mortale per la stessa ragione per cui Tortora era diventato un «cinico mercante di morte». Perché dall’accusa qualche pentito avrebbe tratto vantaggio; nel caso di Tortora, la genia di camorristi e assassini a cui la falsa delazione avrebbe potuto garantire subito sconti di pena e domani la libertà; nel caso di Del Turco, il ras della sanità privata abruzzese Vincenzo Angelini, pizzicato a distrarre ingenti fondi dal patrimonio aziendale, che accusando Del Turco avrebbe potuto giustificare gli illeciti come prezzo del ricatto del governatore dell’Abruzzo.

Mica si metteva in tasca i soldi come un banale bancarottiere, Angelini; li metteva nelle tasche di Del Turco, che glieli estorceva! Poco importa che dalle indagini e dai processi sul caso sia emerso che da Del Turco Angelini non ha avuto alcun vantaggio, ma che il suo impero sanitario, durante il governatorato del presunto concussore, ha visto ridursi radicalmente i ricavi, gonfiati da truffe per cui lo stesso Angelini è stato definitivamente condannato. Ancor meno importa che a Del Turco, radiografate tutte le transazioni effettuate mentre Angelini secondo l’accusa lo rifocillava di milioni, non sia mai stato contestato un euro di provenienza illecita o un acquisto non interamente coperto da disponibilità dichiarate e pregresse.

Se per Del Turco tutto, mutandis mutandis, è cominciato come per Tortora, non è finito tutto allo stesso modo, ma anche qui c’è un evidente parallelo. Come Tortora – così allora si diceva – non poteva essere assolto, pena la delegittimazione del lavoro dei magistrati napoletani e del loro impegno contro la camorra, così Del Turco, che pure è stato scagionato da quasi tutte le accuse, non poteva uscire del tutto pulito da questa vicenda, per non sporcare la reputazione di giudici e pm abruzzesi, che contro di lui si erano accaniti in nome della lotta alla corruzione.

Chi volesse riascoltare da Radio radicale con spirito di verità il processo di primo grado e quello di appello contro Del Turco non solo non si capaciterebbe della sua condanna, ma non potrebbe giustificare il silenzio di tutti i vertici del partito di cui era stato fondatore, cioè il Pd e del sindacato di cui era stato per decenni dirigente, cioè la CGIL, su una vicenda giudiziaria che solo eufemisticamente potrebbe definirsi folle, nelle sue premesse, nel suo svolgimento e nel suo esito.

La morte di Ottaviano Del Turco non estingue la responsabilità della sinistra politica e sindacale per il modo in cui ha fatto massacrare – more solito – uno dei suoi dirigenti più in vista, inchinandosi, malgrado le ombre sinistre e mostruose dell’intera vicenda, ai decreti di una giustizia impazzita.

Difenderlo, cioè difenderne i diritti e la reputazione, senza abbandonarlo al sacrificio che gli era stato apparecchiato, avrebbe certo significato molto per Del Turco, ma sarebbe costato troppo al Pd, nel senso che lo avrebbe costretto a mettere in discussione troppi cliché e troppi tabù, che fin dai tempi di Mani Pulite nel mondo sedicente progressista hanno prostituito il senso della giustizia e l’amore per il diritto a un rapporto opportunistico e politicamente affaristico con la magistratura, con i suoi vertici istituzionali e associativi, con i suoi eroi mediatici e con le sue retoriche combattenti.

Peraltro tutto questo, anziché liberare la patria dal malaffare e aprire la strada alle magnifiche sorti e progressive della sinistra, ha incubato quel virus antipolitico da cui l’Italia è finita impestata e di cui si giovano, guarda caso, proprio le disprezzatissime destre sovraniste e populiste.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter