Riprende con l’autunno il consueto dibattito sulla previdenza, caratterizzato più dai timori che da proposte puntuali e realistiche. Si tratta di un tema divenuto più complesso da affrontare, se teniamo conto dei diversi fattori che ormai incidono in maniera rilevante sui sistemi pensionistici.
Non siamo più nell’era dei pilastri separati, formazione, lavoro e previdenza, ma dobbiamo ragionare di previdenza avendo un approccio olistico, tenendo conto di un mondo in continua evoluzione che si riflette su un mercato del lavoro in trasformazione. Il lavoro da remoto, la richiesta di conciliare tempi di vita con tempi di lavoro, la necessità di aggiornarsi continuamente, l’impatto delle transizioni digitali e green, la crisi demografica e i difetti strutturali del mercato del lavoro italiano devono spingerci a sperimentare nuove soluzioni per assicurare una copertura previdenziale adeguata alle attuali e soprattutto alle prossime generazioni.
Soluzioni che tengano conto dei diversi mercati del lavoro, ma soprattutto del fatto che il nostro mercato del lavoro non è più compatibile con un sistema previdenziale rigido, che comunque ha alla base del principio di adeguatezza l’obbligo di lavorare di più, a lungo e con buoni salari. Difficile in un Paese con un alto debito pubblico e previdenziale, con sistemi a ripartizione, un basso tasso di occupazione e una demografia avversa.
Adeguatezza e sostenibilità non possono essere facilmente assicurate in un mercato del lavoro come quello italiano che vede fenomeni di ingresso tardivo, di retribuzioni povere e non adeguate fino a quarant’anni, con carriere discontinue, a volte subite e da alcuni volute (vedi great resignation), da divari geografici e di genere significativi in termini di tassi di occupazione. Vite lavorative più lunghe (oltre i settant’anni) potranno essere compatibili solo con condizioni lavorative migliori, con riduzioni di orario di lavoro, alternando formazione, aggiornamento e reskilling al tempo di lavoro.
Vite lavorative comunque “non piene”, con salari bassi, con forte volatilità dei lavori e dei salari, non possono essere coperte solo dal primo pilastro previdenziale, ma anche, come avviene in altri paesi europei, da un secondo pilastro semi-obbligatorio e funzionale all’adeguatezza previdenziale. Finita ormai l’era generosa dei sistemi retributivi.
Abbiamo bisogno di rafforzare la previdenza complementare, sia per affrontare la sfida dell’adeguatezza delle prestazioni sia per sostenere l’anticipazione dell’uscita attraverso la previdenza complementare, non potendo questa essere a carico del sistema pubblico. È necessaria per questo una maggiore responsabilizzazione economica dei singoli, incentivando il risparmio previdenziale e finalizzandolo soprattutto all’adeguatezza cara anche alla nostra Carta Costituzionale attraverso l’art. 38.
Ecco perché la riforma avanzata da alcuni rappresentanti del Governo, cioè quella di rendere obbligatorio il versamento del venticinque per cento del Tfr in un fondo di previdenza complementare scelto dal lavoratore, una percentuale bassa, si rivela interessante. L’obbligatorietà da alcuni contestata potrebbe rivelarsi utile a superare alcune delle criticità emerse in questi anni di applicazione della previdenza complementare e a ricondurre l’utilizzo della stessa alle finalità previdenziali per le quali è stata istituita. Oggi infatti, osservando i dati della Covip, essa si presenta in gran parte come una forma di risparmio fiscalmente agevolato.
È importante, per questo, ricordare come la previdenza complementare sia ormai funzionale agli obiettivi dell’art. 38 della Costituzione. La collocazione della previdenza complementare nel sistema dell’art. 38, secondo comma, è stata più volte confermata dalla Corte costituzionale dopo la riforma del 1995. Assolutamente netta in tal senso è stata la sentenza 393/2000 in cui la Corte, afferma che «alla stregua dell’evidenziato quadro normativo non può essere posta in dubbio la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421, e, via via, confermata nei successivi interventi, di istituire un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione».
L’assunto della Corte costituzionale trova peraltro conferma proprio nell’art. 1 comma 1 del d.lgs. 252/2005 lì dove si prevede espressamente che: «Il presente decreto legislativo disciplina le forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, …(omissis)… al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale».
Alcuni dati sulla previdenza complementare in Italia
Vediamo pertanto quale è stata l’esperienza di questi anni. Nel 2023 le forme complementari hanno totalizzato 9,6 milioni di iscritti, il 3,7 per cento in più rispetto all’anno precedente, ma gli iscritti ai fondi negoziali sono 3,9 milioni.
Le adesioni sono cresciute anche nel settore del pubblico impiego attraverso il meccanismo del silenzio-assenso introdotto per i lavoratori di nuova assunzione dal 2019. Necessario evidenziare come il 47,8 per cento degli iscritti ha un’età compresa tra 35 e 54 anni e il 32,9 per cento ha almeno cinquantacinque anni. La percentuale degli iscritti al di sotto dei 35 anni è del 19,3 per cento. I contributi versati rispecchiano purtroppo le differenze strutturali del nostro mercato del lavoro, con contribuzioni medie al Nord che sfiorano i tremila euro l’anno, il doppio rispetto a molte regioni del Mezzogiorno.
Rispetto alle uscite rileviamo come oltre il novanta per cento degli iscritti chiede delle anticipazioni durante il periodo lavorativo. Le anticipazioni nel 2023 sono risultate pari a 2,5 miliardi di euro, in aumento di 188 milioni rispetto al 2022; di questi, 962 milioni sono stati richiesti da aderenti ai fondi negoziali e 853 da iscritti ai fondi preesistenti. Tra le causali, spiccano quella per motivi non riconducibili a una specifica fattispecie, 1,3 miliardi in totale per un importo medio di ottomilasettecento euro e quella per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa di abitazione, con erogazioni di 1,1 miliardi di euro e un importo medio di trentamila euro. Vediamo quindi come di fatto oggi la previdenza complementare non risponda alle finalità individuate dal d.lgs. 252/2005 e per le quali è nata.
I vantaggi della previdenza complementare
La previdenza complementare è ancora oggi poco conosciuta. Vale la pena ricordare in questa sede le caratteristiche principali che regolano il sistema e i vantaggi che ne derivano tanto per i lavoratori quanto per le imprese.
Innanzitutto, i fondi pensione sono vigilati da un’autorità pubblica, la Covip, che, oltre allo stretto potere di vigilanza determina, le linee di indirizzo in materia di previdenza complementare nel rispetto dei principi di trasparenza e di sana e prudente gestione dei contributi, che vengono conferiti alle forme pensionistiche complementari. Nella loro azione e gestione essi si ispirano a detti principi e, in materia di gestione finanziaria, hanno altresì una specifica normativa di settore contenuta nel dm 166/2014, che fissa criteri e limiti per gli investimenti. Anche per quanto riguarda l’offerta dei diversi comparti di investimento, i fondi pensione sono chiamati ad attenersi alle linee di indirizzo previste dalla normativa comunitaria. I fondi sono altresì destinatari di una corposa normativa comunitaria (es. IORP II). Si tratta di un’attività altamente regolamentata e vigilata.
In merito questa iper legislazione andrebbe rivista anche con il supporto delle parti sociali. Una riflessione andrebbe fatta, come peraltro evidenziato dalla stessa Covip nella sua ultima relazione annuale, per i comparti conservativi destinati prevalentemente ad accogliere il conferimento tacito del Tfr ai sensi della normativa di settore. Nella storia dei fondi pensione i comparti conservativi sono quelli che sicuramente hanno sofferto di più in termini di performance e di costi di gestione che impattano sui rendimenti finali.
Con riferimento ai vantaggi, occorre ricordare gli importanti benefici fiscali introdotti per i versamenti effettuati alla previdenza complementare, ivi incluso il Tfr. Questo se lasciato in azienda è sottoposto, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, alla tassazione media ordinaria, certamente alta a fine carriera, mentre il riscatto per pensionamento presso un fondo pensione è sottoposto ad una tassazione massima del quindici per cento.
Se si permane oltre i trentacinque anni nella previdenza complementare si può arrivare anche ad una tassazione di appena il nove per cento. Un favor sconosciuto ai lavoratori che con il nuovo intervento del governo potrebbe essere oggetto di una adeguata campagna di comunicazione. Sappiamo che oggi i contributi versati ai fondi pensione sono deducibili nel limite massimo di 5.164,57 euro l’anno. Al riguardo sarebbe necessario tenere conto delle carriere e dei redditi discontinui e pertanto consentire il recupero del vantaggio fiscale anche negli anni successivi, se non utilizzato in alcuni anni, versando cifre deducibili superiori al limite dei 5.164,57 euro.
Occorre poi non dimenticare l’enorme flessibilità nell’utilizzo delle somme accantonate presso i fondi pensione durante la vita lavorativa: le cosiddette anticipazioni consentono ai lavoratori iscritti di poter richiedere fino al settantacinque per cento del montante accumulato per acquisto prima casa, per ristrutturazione prima casa e per spese sanitarie per sé, coniuge e figli, con una tassazione del ventitré per cento nei primi due casi e del solo quindici per cento nel caso di spese sanitarie. A ciò si aggiungono le cosiddette anticipazioni per ulteriori esigenze (vale a dire quelle acausali) con la possibilità di richiedere fino al trenta per cento del proprio montante e con una tassazione al ventitré per cento.
Da ultimo una tassazione sui rendimenti finanziari del venti per cento, contro il ventisei per cento previsto per le rendite finanziarie, che si riduce al 12,5 per cento nel caso di titoli di Stato.
Negli ultimi anni, complice anche l’alta inflazione e la conseguente rivalutazione dei Tfr, si è avuta una maggiore consapevolezza anche da parte delle aziende dei vantaggi della previdenza complementare. Il versamento ai fondi pensione del Tfr esonera, infatti, l’azienda dall’onere della rivalutazione annuale prevista per legge. Ed ancora le aziende che destinano il Tfr ai fondi pensione sono esentate dal versamento dello 0,2 per cento del monte retributivo al fondo di garanzia Inps e dello 0,28 per cento a titolo dei cosiddetti oneri impropri da versare sempre all’Inps. Da ultimo l’azienda che versa il Tfr a un fondo pensione beneficia di una maggiore deduzione dal reddito di impresa nell’ordine del sei per cento se sono aziende con meno di cinquanta dipendenti o del quattro per cento se sono aziende fino a quarantanove dipendenti. Questa percentuale si applica all’ammontare del Tfr annualmente conferito. Un quadro decisamente di favore, che però a contribuito ad un utilizzo distorto della previdenza complementare.
Una proposta necessaria
Con la proposta del governo si offrirebbe una possibilità in più al lavoratore di utilizzare i montanti contributivi del secondo pilastro, per incrementare il montante presso l’Inps per raggiungere il requisito dell’anzianità contributiva. Ma soprattutto si aumenterebbe il numero di lavoratori coperti dalla previdenza complementare e in particolare i giovani. Sarebbe quindi utile, con l’occasione, favorire fiscalmente l’opzione rendita piuttosto che il riscatto in forma capitale, oggi preferito da gran parte dei lavoratori che aderiscono al secondo pilastro. Il riscatto in forma capitale trasforma di fatto le risorse versate in un secondo Tfr, in contrasto con l’obiettivo individuato dal legislatore del 2005, che è quello “di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”, assolvendo così alla finalità principale della previdenza complementare. Quello di destinare una parte del Tfr al miglioramento dell’adeguatezza delle prestazioni del primo pilastro.
L’ultimo Pension adequacy report (2024) della Commissione Europea ci ricorda l’importanza dell’adeguatezza oltre che della sostenibilità soprattutto rispetto alle ultime generazioni di lavoratori, definendola come: la capacità di prevenire e mitigare il rischio di povertà in vecchiaia; la capacità di sostituire il reddito guadagnato prima del pensionamento; la capacità di accompagnare l’intero periodo di pensionamento. Quanto di più coerente con il nostro art. 38 della Costituzione.
Francesco Verbaro, Presidente di Formatemp