Che ne facciamo oggi del punto e virgola? È per antonomasia il segno capace di aggiungere sfumature al senso di una frase. Ma come può servirci ancora in una società divisa, dove tutto è bianco o nero, senza chiaroscuri né dubbi, dove i messaggi politici, sociali, culturali sono sempre tranchant? Diverse volte, nel corso del Novecento, si è pensato che il punto e virgola fosse sul punto di scomparire. Ma oggi sembra che il momento non si possa più rimandare. C’entrano i social, c’entra la politica e c’entra soprattutto il nostro modo di pensare, di cui la punteggiatura è una specie di ossatura sottile.
I segni d’interpunzione sono rivelatori del modo in cui rappresentiamo i nostri pensieri. Lo si vede nei romanzi. Punti, virgole, punti e virgole, trattini producono nel testo incavi, solchi e scanalature che indirizzano il racconto e incidono sull’enfasi, sul climax, persino sul tono della voce narrante.
La critica letteraria Parul Sehgal ha scritto sul New York Times che l’essenza dello stile narrativo si sente «nel battito cardiaco del testo, cioè nel ritmo e nella cadenza, da come le frasi si costruiscono e si piegano, si abbassano o si spezzano». Secondo lei, «lo stile è costituito per il 90 per cento dalla punteggiatura».
Il punto è «un momento di silenzio tra una parola e un’altra», scriveva Vasilij Kandinskij nel saggio Punto, linea, superficie. Ma il punto e virgola ha un valore più sofisticato: consente di connettere le mezzetinte al colore dominante, permette a un pensiero, a uno sguardo, di maturare in un altro.
«C’è buio; solo in cima ai gradini c’è un punto illuminato da un lampione guercio per l’oscuramento» (Italo Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”): c’è buio, insomma, ma non proprio dappertutto. Il punto e virgola non è il segno della logica binaria. Lo scrittore Ernesto Franco l’ha associato a quel territorio dove il pensiero si elabora per frazioni o pause; altri l’hanno inteso come un segno che pone dubbi al lettore. Ma proprio per queste qualità, il punto e virgola sta scolorendo.
«È marginale o trascurato non solo nella comunicazione pratica informale, ma anche in scritti che chiedono una certa elaborazione e compostezza compositiva», scrive Bice Mortara Garavelli nel suo “Prontuario di punteggiatura” (Editori Laterza). «Ed è ignorato o evitato quasi del tutto nella scrittura online». Del resto, non potrebbe essere altrimenti, vista la polarizzazione delle chiacchiere sul web.
Lo scambio su Internet induce allo scontro. Tutto riesce ad assumere un tono da guerra culturale: dalla geopolitica ai vaccini, dall’emergenza climatica fino ai fatterelli di costume. Le cosiddette Culture wars che aveva spiegato il sociologo James Davison Hunter negli anni Novanta si sono presentate in una nuova e più virulenta versione durante la prima campagna elettorale di Donald Trump del 2016. La cultura Woke che nasceva negli anni Sessanta è riesplosa nel nostro tempo con la Cancel culture. Sono gli spartiacque di una comunicazione che procede per affronti. Le questioni specifiche non sono più discusse, ma contrapposte in lotti ideologici per meglio stabilire le linee di battaglia di una morale. È un modello che ben presto abbiamo importato in Italia.
Si dice che la tecnologia sia soltanto uno strumento: che la sua bontà dipenda dall’uso che ne facciamo. Ma l’esperienza ci dimostra che non è vero. I social network non sono uno strumento, sono un ambiente, hanno un sistema interno che costringe a rispettare le sue regole, a schierarsi. Gli scontri tra gruppi sociali per l’affermazione dei propri valori non contemplano perplessità. Così prolifera la semplificazione del pensiero. Pro-life o pro-choice; pro-vax o no-vax. La punteggiatura si adegua alle lacerazioni.
«La Lancaster University ha pubblicato un ampio corpus elettronico di testi in inglese degli ultimi trent’anni e ha mostrato il rapido e recente passaggio a una prosa sempre più semplice. I messaggi brevi digitati in fretta rinunciano ai punti e virgola», ha scritto nel 2021 sul Guardian Simon Horobin, docente di letteratura e lingua inglese a Oxford. «Il linguaggio non funziona più come deposito di significati e fatti, ma è diventato tossico, assume un nuovo aspetto nella volontà di manipolare valori, relazioni sociali e azioni», ha commentato il critico culturale Henry A. Giroux sul quotidiano indipendente Truthout.
Semplificazioni e strumentalizzazioni sono parti dello stesso modo comunicativo. La progressiva sparizione del punto e virgola va di pari passo con la dominanza dell’approccio tranchant, con la logica “sì-no” dei like, con la rapidità e la sciatteria dei messaggi nelle chat. Ma il disuso di questo segno dipende anche dalla sua stessa natura anarcoide, dalla sua versatilità, dal suo statuto incerto. Per le sue ambiguità il punto e virgola si è attirato spesso antipatie. Kurt Vonnegut avvertiva: «Non usatelo. È un ermafrodito travestito, che non rappresenta assolutamente niente. Dimostra soltanto che avete fatto il College». François Cavanna, tra i fondatori di Charlie Hebdo, scriveva: «È un buono a nulla, un parassita, un pavido, un segno che contraddistingue la vaghezza del pensiero, si attacca ai denti del lettore come una caramella troppo morbida». Altri denigratori (Hemingway, Orwell) si chiedevano perché mai utilizzarlo. Oggi sarebbe utile domandarsi come usarlo.
L’Enciclopedia Treccani ci rinfresca quanto appreso alle scuole medie: «Il punto e virgola si utilizza per indicare uno stacco intermedio tra due proposizioni; per separare tra di loro le coordinate; per formulare elenchi, oppure al posto della virgola per creare particolari effetti stilistici». Ma la verità è che quasi nessuno sa bene dove o quando piazzarlo in una frase. «È un segno problematico, difficile da usare in maniera corretta e adatta al contesto anche da parte di chi è ampiamente scolarizzato», ha scritto Paola Baratter nella sua monografia Il punto e virgola. Storia e usi di un segno (Carocci, 2018).
La studiosa ricorda come nel secolo scorso questo segno sia stato spesso considerato a fine partita, ma come sia comunque sopravvissuto nei libri e (meno) nei giornali. Nato ufficialmente nel 1496 nel De Aetna di Pietro Bembo, nella versione a stampa di Aldo Manuzio, ha seguito alterne vicende finché le grammatiche di epoca moderna non ne hanno codificato le diverse funzioni: enumerare, argomentare, aggiungere, approfondire, confrontare, commentare, spiegare.
I numerosi intoppi (detrattori, fraintendimenti, mode letterarie) che ha incontrato nei suoi cinque secoli di vita sono documentati nel libro “Semicolon: the past, present, and future of a misunderstood mark” (Ecco/HarperCollins) di Cecelia Watson. Leggendo i saggi di Baratter e Watson ci si domanda come sia riuscito questo paragrafema a giungere fino a noi fra tante ostilità. La risposta è che forse non c’è un altro segno d’interpunzione così capace (sintetizzando Michele Mari) di «chiudere senza veramente concludere, di separare senza per forza dividere».
Il punto e virgola ha la tenacia del simbolo. Tra le persone che hanno avuto disturbi di depressione, si sta diffondendo in forma di piccolo tatuaggio. Serve da monito e da sprone. Significa mettere un punto a ciò che è stato, ma andare comunque avanti perché c’è sempre qualcosa per cui vale la pena vivere. L’idea viene da Project Semicolon, un’organizzazione non-profit nata nel 2017 e attiva nella prevenzione dei suicidi. L’organizzazione si è appropriata di questo segno perché rappresenta «una frase che non finisce, ma può, anzi, continuare in un altro modo». Il tatuaggio (che le attrici Selena Gomez e Tommy Drfman hanno sul polso, per esempio) significa anche solidarizzare con le persone che soffrono e cercano una via d’uscita.
Ma al di là della sua carica di metafora, il punto e virgola non sembra avere floride prospettive nella scrittura. Gli studiosi di linguistica sono compatti nella rassegnazione. Fuori dalla prosa più sorvegliata di romanzieri e saggisti, ormai, a questo segno non è più richiesto di segnare la cadenza in una frase. Pare gli sia rimasto soltanto un piano B: riciclarsi nell’emoticon dell’occhiolino, sopravvivere.