Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Etc dedicato al tema del tabù, in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Il mestiere dell’architetto, dice Daniel Libeskind, richiede un certo ottimismo, altrimenti sarebbe impossibile progettare edifici destinati a durare nei secoli. E per immaginare che questa disciplina possa essere invece che una fortezza, un aeroporto o una stazione, un luogo, cioè, da cui partire (e non in cui fermarsi), il tasso di ottimismo deve essere ancora maggiore. Allora sarà possibile utilizzare l’architettura come strumento per ricostruire la verità, magari cancellata, omessa, modificata, di un fatto che ha cambiato le sorti delle persone.
L’architetto diventa un magistrato o un detective in cerca di prove, ma anche lo scenografo della scena del crimine. Siamo dentro l’agenzia Forensic Architecture, nata nel 2010 tra le mura della Goldsmiths University di Londra per volontà del geniale e visionario Eyal Weizman, che ha dato vita a una realtà indipendente per indagare sulla violenza perpetrata contro i diritti umani e l’ambiente, dagli Stati o da entità commerciali. Un team composto da architetti, sviluppatori di software, registi, giornalisti investigativi, scienziati e avvocati, conduce le indagini per presentarne poi i risultati ai tribunali internazionali, a commissioni d’inchiesta, ai tribunali civili o all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ovvero ai committenti.
In questo nuovo ambito disciplinare, l’architettura ha un ruolo decisivo e la sua funzione è quella di ridare forma e voce a edifici, paesaggi e scenari gravemente danneggiati, talvolta addirittura cancellati dalla storia. Quelle architetture diventano “proibite” a chi cerca la verità, rese inaccessibili da chi cerca di nasconderla. Sono proibiti in qualche modo anche i modellini che le ricreano perché contengono dati sensibili e testimonianze di prima mano, ma anche immagini satellitari, video amatoriali o registrati da telecamere pubbliche, fotografie storiche insieme all’indagine forense e giornalistica. Tutti questi elementi compongono edifici, scenari, mappe altrimenti non più disponibili.
Alla base c’è il concetto di soglia di percepibilità che ha a che fare con la tensione che intercorre fra testimonianza diretta ed elemento probatorio e le complesse interdipendenze tra violenza e negazione della prova. Così Weizman nel suo libro “Architettura Forense” (Meltemi, 2022) mette in relazione due indagini che hanno in comune il fatto di «esaminare la relazione tra un particolare edile, il supporto d’immagine che lo ritrae, una politica di assassinio generalizzata e gli atti con cui la si nega».
Questi elementi possono essere sulla soglia di percepibilità oppure al di sotto. Se si prende un’immagine satellitare, per esempio, avremo a che fare con i pixel che possono variare di dimensione a seconda della risoluzione della foto. Spesso gli scatti satellitari a disposizione del pubblico sono a una risoluzione più bassa e dunque difficilmente leggibili. I pixel sono disposti come una griglia sull’immagine e, come scrive Weizman, «tale griglia filtra la realtà come farebbe un setaccio o una rete da pesca. Gli oggetti di dimensioni maggiori della singola maglia sono catturati e registrati; quelli più piccoli le sfuggono e scompaiono. Quelli di dimensione quasi uguale si trovano in una speciale condizione di soglia: che restino catturati oppure no dipende dalla relativa bravura o fortuna del pescatore e del pesce».
Ma c’è un dato interessante: lo spazio che occupa la figura umana in questo reticolo è di circa cinquanta centimetri, pari alla dimensione di un pixel nelle immagini disponibili al pubblico. «In tal modo, si potrebbe pensare il pixel come analogo del modulor di Le Corbusier: un sistema di proporzioni e misure in relazione a quelle del corpo umano. Il modulor delle immagini satellitari non fu concepito come ausilio per l’organizzazione dello spazio, ma allo scopo di rimuovere la figura umana dalla sua rappresentazione».
In questa relazione tra i pixel delle immagini e la documentazione dei fatti accaduti c’è spazio per i negazionisti e Forensic Architecture lavora proprio lì, grazie a una prassi controperiziale che «deve misurarsi con una situazione di disuguaglianza strutturale quando accede a elementi visivi, segni e conoscenze tecnologiche, e trovare modalità operative tutt’intorno e al di sotto della soglia di percepibilità», come si legge nel libro.
Prendiamo per esempio il caso dell’attacco russo al Teatro d’arte drammatica di Mariupol, in Ucraina. L’edificio ospitava centinaia di civili che si erano rifugiati lì e la Russia, pur essendone a conoscenza, lo ha bombardato. Per stabilire quello che Amnesty International ha definito un crimine contro l’umanità, il team di Forensic Architecture ha realizzato un modello in 3D del teatro. Poi ha coinvolto i sopravvissuti per conoscerne gli interni e il modo in cui erano abitati.
La cosa straordinaria è che l’architettura stimola la memoria. In condizioni di grave trauma, come quello subito da questi testimoni, spesso la memoria non è in grado di fornire informazioni adeguate. Ma poter tornare sul posto in maniera virtuale, dunque sicura, permette invece di risvegliarla e di recuperare dettagli piccolissimi, quelli dei gesti quotidiani. È un doppio gioco che si basa su tecniche mnemoniche antiche.
Cicerone e Quintiliano consigliavano ai loro allievi di immaginare un percorso all’interno di un palazzo per accompagnare la propria arringa. Distribuendo gli argomenti lungo le stanze, ricche di dettagli decorativi, avrebbero visualizzato e associato gli argomenti allo spazio e agli oggetti, evitando così il rischio di perdere il filo del discorso. Viceversa, vedere l’edificio permette di ricordarne le “parole”, cioè il nostro passarci dentro. La tecnica si chiama situate testimony, testimonianza sul posto, e crea un modello che raccoglie una memoria collettiva, quella di tutti coloro che ci sono tornati, virtualmente, per ricostruirne la storia e la vita. La soglia di percepibilità allora diventa più alta e l’edificio proibito diventa più pubblico, aperto.
Jasper Humpert, artista multidisciplinare e ricercatore di Forensis, la gemella berlinese dell’agenzia di Londra, spiega: «Spesso usiamo questo tipo di testimonianza per raccontare l’aspetto soggettivo di ciò che c’è dietro l’immagine. Poi possiamo verificare e triangolare insieme ad altri elementi se ci sono connessioni tra le prove. Ed è affascinante il lavoro su Mariupol, perché mostra la ricchezza di informazioni che riusciamo a ottenere in questo modo».
C’è anche una questione estetica, tanto che Forensic Architecture ha ottenuto riconoscimenti anche dal mondo dell’arte (per esempio a Documenta. nel 2017). «L’estetica ha a che fare con il modo in cui vogliamo rappresentare la violenza» – continua Humpert – «il modo in cui vogliamo rappresentare le informazioni affinché le persone siano in grado di comprenderle e formarsi una propria visione politica. Quanto è reale quello che stiamo facendo vedere? Anche la comprensione e la riproduzione dei materiali diventa importante, non solo per conoscere la vera natura dell’edificio. Per esempio, la misura di una piastrella può essere usata per capire la distanza dell’aggressore dal bersaglio». L’architettura conserva informazioni ed è in grado di restituirle a chi le osserva.
Il caso più eclatante riguarda naturalmente le guerre che coinvolgono contesti urbani, ma in ogni caso gli edifici assorbono i cambiamenti circostanti e ne esprimono traccia in facciata. Lo spiega bene Eyal Weizman nel suo libro: «L’architettura e l’ambiente edificato funzionano come dei media perché essi sono allo stesso tempo supporti di memoria e strumenti di scrittura che producono cambiamenti nelle tre operazioni basilari che competono ai media: percepiscono o apprendono il loro ambiente circostante, conservano quest’informazione e in seguito diffondono gli effetti di essa.
È in tal modo che l’architettura forense riesce a invertire le categorie fenomenologiche della percezione e dell’esperienza: essa non si occupa di come noi possiamo esperire un edificio, ma piuttosto di come fondamentalmente un edificio possa esperire i suoi utenti».
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