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Kongjian Yu, architetto e urbanista cinese di fama internazionale, aveva solo dieci anni il giorno in cui rischiò di affogare in un torrente vicino alla fattoria di famiglia, durante una violenta alluvione. Il terreno sulla riva del fiume si sgretolò sotto i suoi piedi, trascinandolo improvvisamente dentro l’acqua fuori controllo. Il suo destino, però, cambiò grazie alla presenza di salici e canneti, capaci di rallentare il flusso della corrente consentendo così al ragazzo di aggrapparsi alle piante e portarsi in salvo. Se l’alveo e gli argini del fiume fossero stati impermeabili e cementificati, come spesso accade oggi, Kongjian Yu sarebbe morto e il mondo, forse, non avrebbe mai sentito parlare di “città spugna”, un termine inventato dal pluripremiato paesaggista nato nel 1963.
Partendo da quel giorno traumatico, Kongjian Yu divenne infatti uno dei pionieri delle soluzioni urbanistiche e infrastrutturali pensate per permettere alle nostre città – impermeabili, dense e progettate per accogliere il boom della motorizzazione di massa degli anni Sessanta – di reagire ai periodi di siccità e alle precipitazioni violente, alle ondate di calore e alle tempeste, alla carenza e all’abbondanza di acqua. Sono tutti fenomeni riconducibili alla crisi climatica di origine antropica, che non conosce vie di mezzo.
Nel 2023, secondo l’Osservatorio Città Clima di Legambiente, in Italia gli eventi meteorologici estremi sono aumentati del 22 per cento rispetto al 2022. A livello globale, stando ai dati dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), dal 1970 al 2019 questi fenomeni sono quintuplicati. Il nostro Paese, considerato un “hotspot climatico” anche per via della presenza del mar Mediterraneo, è terzo in Europa per danni economici legati al clima che cambia, dice l’European environment agency (Eea).
L’unico modo per adeguare i centri urbani al climate change è fare un passo indietro, perché a una natura imprevedibile e fuori controllo bisogna rispondere con la stessa moneta, ossia con altro verde e altro blu, prendendo spunto da ciò che accadde a Kongjian Yu. Ecco perché da qualche anno si parla di Nature based solution (Nbs), soluzioni multifunzionali e multistakeholder basate sulla natura e gli ecosistemi, di cui fa parte anche la nozione di “città spugna”: depavimentazione; sistemi di drenaggio urbano sostenibile (Suds) per permettere all’acqua meteorica di defluire e ricaricare la falda; tetti e pareti verdi sugli edifici; stagni di ritenzione; rinaturazione dei fiumi; parchi e viali alberati sempre più diffusi e posizionati in luoghi strategici (nei flooding hotspot, dove si accumula l’acqua).
Una ricetta che parte dall’adattamento per poi arrivare alla mitigazione della crisi climatica e dell’inquinamento atmosferico, anche perché – secondo le stime delle Nazioni Unite – entro il 2050 il 70 per cento della popolazione mondiale vivrà nei centri urbani: molto, se non tutto, parte e partirà da lì. Per reagire al riscaldamento globale servono quindi città permeabili, naturali e a misura di essere umano, contrarie al modello di sviluppo degli ultimi cinquant’anni del Novecento.
L’obiettivo è rivalutare e ridare valore a quello che Gilles Clément, biologo e paesaggista francese, definisce «terzo paesaggio» e comprende i luoghi contraddistinti dall’assenza di un’impronta umana: parchi e riserve naturali, ma anche piccole aree con rovi, sterpaglie, erbacce, prati. Si tratta di residui che, come si legge nell’edizione curata da Filippo De Pieri del Manifesto del Terzo paesaggio (2014, Quodlibet), devono essere «una componente dei piani urbanistici, un supporto allo sfruttamento agricolo e una nuova dimensione ormai accolta della rivisitata nozione di occupazione di suolo».
Secondo l’architetto e urbanista Federico Parolotto, Ceo della società di pianificazione dei trasporti Mic-Hub, le nostre città sono «tradizionalmente incapaci di filtrare le acque, perché – soprattutto con l’arrivo dell’automobile – è avvenuta una progressiva creazione di una superficie continua, che è la vera protagonista della nostra società: l’asfalto». Quest’ultimo – continua – è «un materiale che ha rivestito un ruolo centrale nella definizione degli spazi, ma oggi sta avendo una parabola simile alla plastica: è una buona idea usata in modo scriteriato».
L’auspicato cambio di paradigma non è ancora abbastanza deciso, perché – spiega l’European environment agency (Eea) – tra il 2012 e il 2018 nell’Unione europea abbiamo cementificato 3.581 chilometri quadrati di terreni naturali, più del doppio rispetto all’estensione della Città Metropolitana di Milano. L’Italia, priva di una legge nazionale contro il consumo di suolo, rimane uno dei Paesi più grigi del continente: secondo il bollettino 2023 dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), nel 2022 le coperture artificiali hanno coinvolto altri 76,8 chilometri quadrati di suolo, per un aumento pari al 10,2 per cento rispetto al 2021.
Riempiamo di asfalto ed edifici perfino le aree protette e le zone a rischio dissesto idrogeologico, come se la formula del “3-30-300” delle Nazioni Unite – creata da Cecil Konijnendijk, co-fondatore del Nature based solutions institute – non avesse supporti scientifici: tre alberi visibili da ogni casa, trenta per cento di copertura arborea in ogni quartiere (non città), trecento metri di distanza massima da un parco o un’area verde per ogni cittadino.
Gli effetti dell’emergenza climatica sono amplificati da una cementificazione tutt’oggi forsennata, basti pensare a ciò che è successo nel maggio 2023 con le alluvioni in Emilia-Romagna. Inoltre, l’Ispra ritiene che nelle nostre città di pianura, soffocate dall’asfalto e con poche aree verdi, ci siano mediamente quattro gradi in più rispetto al resto del territorio. Anche per questo l’Italia, stando a uno studio pubblicato nel luglio 2023 su Nature Medicine, è il Paese europeo dove si muore di più a causa delle ondate di calore estive (duecentonovantacinque decessi per milione di abitanti rispetto a una media europea di centoquattordici). Secondo il Wwf Italia, «l’aumento del verde complessivo potrebbe evitare fino a quasi quarantatremila decessi l’anno nelle città europee». Al consumo di suolo “tradizionale” bisogna poi integrare la superficie occupata dalle auto, che – dati Ue alla mano – restano parcheggiate per il 92 per cento del tempo e percorrono distanze inferiori ai cinque chilometri circa sei volte su dieci.
«L’automobile ha come elemento specifico il fatto di occupare un sacco di spazio: da ferma occupa in media dodici metri e mezzo, ma quando si muove è di fatto molto più ingombrante. Ecco perché va rivista radicalmente la sua posizione», aggiunge Federico Parolotto. Molte città – non solo europee – stanno iniziando a muoversi in questa direzione, chiudendo intere vie al traffico motorizzato o eliminando i parcheggi per convertirli in bike lane, piste ciclabili protette, zone pedonali, aree verdi e altre superfici morbide e porose. È la dimostrazione che le Nature based solution e le infrastrutture per la mobilità sostenibile possono, e devono, contaminarsi, restituendo spazio pubblico agli utenti confinati ai margini dei piani urbanistici del secondo dopoguerra. Parliamo di chi si sposta in bicicletta o a piedi, ma anche con il trasporto pubblico, sempre in un’ottica di intermodalità.
«Il verde urbano è il risultato di un processo in cui le auto perdono la loro centralità. Pensiamo a com’era corso Buenos Aires, a Milano, una volta. Tutte le città occidentali stanno avendo una progressiva erosione dello spazio del marciapiede, allo scopo di aumentare la capacità stradale. Ma una città che non vede le auto al centro è, al tempo stesso, una città che naturalmente diventa più verde», sostiene Parolotto, secondo cui «la cosa più importante da fare è aprire nuovi spazi attuando la depavimentazione, una pratica di derivazione hippie e anti-sistema, ma che oggi è l’elemento chiave di una città sostenibile, ancor prima degli asfalti drenanti o che facciano percolare la pioggia».
In sostanza, l’asfalto viene “rotto” ed eliminato per permettere alla natura e alla terra battuta di riemergere: «Ci sono diversi strati. Esiste la parte di asfalto di circa un centimetro, che è quella che vediamo, mentre lo strato inferiore è fatto di un materiale che viene pressato, in modo tale che faccia da base elastica. È evidente che vada rimosso tutto finché non si trova terreno permeabile», puntualizza l’architetto. Il beneficio di questa operazione è duplice, in quanto limita i danni delle alluvioni e della carenza di precipitazioni (associata a temperature elevate): l’acqua piovana entra facilmente nel sottosuolo, le falde acquifere si ricaricano e, durante l’estate, le piante abbattono le isole di calore, fungendo da condizionatori naturali.
Un caso emblematico è quello di Bovisio Masciago, comune lombardo di 16.700 abitanti in provincia di Monza Brianza, dove si trova uno dei più importanti sistemi di drenaggio urbano sostenibile d’Italia: la ghiaia e le piante assorbono l’acqua meteorica, che viene depurata dalla vegetazione (scelta non casualmente) prima di riempire naturalmente la falda. Questi piccoli corridoi verdi – affiancati a una nuova pista ciclabile – sono nati in seguito all’eliminazione dei parcheggi delle auto: un altro esempio a sostegno dell’unione tra mobilità attiva e soluzioni “spugnose” per mitigare la crisi climatica.
Ma le Nature based solution, come anticipavamo all’inizio, si possono sviluppare anche verticalmente: «I tetti e le pareti verdi sono le Nbs più applicate agli edifici. Le facciate possono essere molto tecnologiche, con substrati performanti e irrigazione a goccia. Ma anche quelle low-tech, con rampicanti piantati a terra o in grandi contenitori, hanno una funzione simile e sono più facili da mantenere», racconta il paesaggista Andrea Balestrini, director of research dello studio di architettura Land.
La questione è simile anche per i tetti verdi, spesso applicati anche alle strutture ospedaliere in veste di giardini terapeutici (come avverrà ad esempio nel nuovo ospedale Policlinico di Milano): «Ci sono i tetti estensivi, che grazie alla vegetazione bassa necessitano di minor manutenzione, e quelli intensivi, dove invece si utilizzano specie fiorite, arbustive e piccole specie arboree, perché spesso sono piattaforme fruibili e hanno un valore ornamentale maggiore», aggiunge. I cosiddetti “green roof” sono nati proprio con la finalità di gestire l’acqua piovana in eccesso, evitando che finisca nel sistema fognario. In alcuni casi, sottolinea Balestrini, «la risorsa idrica viene usata all’interno dell’edificio o per irrigare nuovamente il tetto».
Nella “città spugna” ideale, le Nature based solution verticali devono interagire con quelle orizzontali. Un esempio potrebbe essere un filare alberato piantato davanti a un edificio con una parete e un tetto verde: «I centri urbani devono accettare la biodiversità come parte integrante del loro sviluppo, non come un elemento da espellere. Può anche essere una biodiversità minuta e poco percettibile, ma rimane fondamentale», dice Parolotto.
Il passo decisivo da compiere è ora quello dell’omogeneità e dell’equità, perché non esiste sostenibilità ambientale senza sostenibilità sociale. I progetti di riforestazione urbana, ad esempio, sono spesso limitati alle zone centrali e benestanti, mentre quelle periferiche risultano meno verdi, più cementificate e quindi più inquinate. Non a caso, secondo l’Ats di Milano, il biossido di azoto e le polveri sottili hanno tassi di decesso molto più alti – fino al sessanta per cento in più – nei quartieri periferici del capoluogo lombardo.
Un esempio da seguire potrebbe essere quello di Medellín, i cui trenta Corredores verdes hanno coinvolto anche le zone più degradate della città, connettendo meglio gli spazi naturali preesistenti: dal 2016, anno di inizio del progetto, la temperatura media nella metropoli colombiana è scesa di circa due gradi, con benefici riscontrati in centro e in periferia, anche grazie a programmi per formare giardinieri provenienti dai quartieri svantaggiati. Se il cambiamento climatico è un moltiplicatore di disuguaglianze, il trionfo della biodiversità urbana può essere un ingrediente capace di abbracciare tutte le componenti della sostenibilità, una parola ormai svuotata del suo valore. Gli elementi e i desideri della città naturale confermano che, in questo periodo storico, innovare non significa mostrare di essere più forti e dominanti, ma aiutare un semplice elemento – il verde – a prendere la direzione giusta, per poi lasciarlo andare, fidarsi e aspettare.
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