Italia differenziata Perché l’autonomia regionale non ridurrà il divario tra Nord e Sud

Nonostante l’aumento del Pil dagli anni Cinquanta a oggi, le regioni del Mezzogiorno sono in ritardo rispetto alle altre a causa di migrazioni, bassa natalità e disuguaglianza nei servizi pubblici. Secondo Vittorio Daniele e Carmelo Petraglia, la legge non farebbe che aggravare il problema, favorendo lo sviluppo delle aree più ricche

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Dagli anni Cinquanta a oggi, il Pil per abitante è aumentato in tutto il paese, ma il divario tra Nord e Sud non si è sostanzialmente ridotto. Anzi, dopo una breve fase di convergenza, dagli anni Settanta in poi è tendenzialmente aumentato. In questo caso, si direbbe, lo Stato ha fallito. Eppure c’è un importante distinguo da fare.

Ci si dimentica che lo sviluppo economico non dipende solo da scelte politiche. Dipende anche, e largamente, da fattori economici. Certo, gli investimenti pubblici sono importanti, ma non si ha sviluppo duraturo senza quelli privati; e questi sono mossi dalle opportunità di profitto, da convenienze di mercato sulle quali le politiche non sempre riescono a incidere. Le scelte politiche possono realizzare alcune condizioni per la localizzazione delle imprese, creare infrastrutture, strade e porti, ma ciò non assicura che le imprese investano e creino occupazione. La politica ha certo un ruolo, ma quel ruolo è limitato. E lo è ancor di più oggi, nell’epoca della globalizzazione.

Nel mercato globale, ciò che accade nel Mezzogiorno dipende non solo da ciò che si decide nelle stanze delle regioni o dei ministeri; dipende anche da ciò che accade nel resto d’Europa o, per dire, in Cina. Nell’economia globalizzata, i capitali, le merci ma anche le persone si spostano con estrema facilità. La dimensione dei mercati, le differenze nei costi del lavoro e nella tassazione tra paesi e regioni, determinano le convenienze relative su dove investire. Ciò crea opportunità per alcune regioni, ma anche conseguenze negative per altre.

La libertà di spostamento degli individui, dei fattori produttivi e dei prodotti facilita la tendenza alla concentrazione delle attività economiche in alcune aree. Le regioni, le aree più ricche o a più rapida crescita attraggono capitali e lavoratori qualificati, mentre da quelle in ritardo si emigra. Lo confermano i dati. Tra il 2002 e il 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone dirette, per l’ottanta per cento, verso il Centro-Nord. Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti, ottocentootto mila dei quali con meno di trentacinque anni, di cui duecentosessantatre mila laureati. Insieme, emigrazione giovanile, bassa natalità e invecchiamento della popolazione modificano la società e l’economia: la demografia agisce come una forza profonda e potente. Le tendenze demografiche in atto aggravano i divari tra Nord e Sud, ma pongono problemi anche alle aree più avanzate del paese. Da un lato, diminuisce il contributo della forza lavoro qualificata alla produzione, dall’altro aumenta il bisogno di assistenza e di cure. Per fronteggiare i nuovi bisogni, il ruolo dello Stato sociale dovrebbe aumentare, ma sembra destinato, invece, a ridimensionarsi compresso da vincoli fiscali sempre più stringenti e dalla bassa crescita economica cui, difficilmente, ci si potrà sottrarre.

Se i divari economici dipendono dalla politica ma anche, e soprattutto, dal mercato non così quelli nei servizi pubblici. In ultima analisi, il numero di scuole, di ospedali, di strade o di acquedotti presenti in un territorio dipende da scelte politiche, non dal mercato. Ed è su questi divari che dovrebbe concentrarsi la nostra attenzione perché esprimono realmente la qualità e l’efficacia dell’azione politica nella creazione di condizioni di uguaglianza tra i cittadini.

Se si guarda ad altri Paesi, non si osserva una stretta relazione tra disuguaglianza nei redditi tra cittadini o tra territori e grado di decentramento. Più difficile esprimersi per quel che riguarda gli standard dei servizi pubblici, data la difficoltà a misurarli. Anche sotto quest’aspetto non sembra esserci un modello da preferire a priori, anche se, probabilmente, nei paesi europei in cui il grado di decentramento è maggiore le differenze regionali nei servizi tendono a essere più contenute, perlomeno quando si considerano gli indicatori sociali e sanitari. L’Italia è, però, un caso particolare. Lo è perché le regioni in ritardo di sviluppo costituiscono una parte molto ampia del territorio nazionale e perché i divari interni sono profondi. E ciò ha notevoli implicazioni.

Con l’autonomia differenziata, il sistema di finanziamento delle nuove funzioni devolute alle regioni, basato sulle compartecipazioni al gettito dei tributi statali raccolto sul territorio, farà sì che quelle più ricche abbiano più risorse disponibili. Potranno, così, offrire più servizi ai propri cittadini e, eventualmente, offrire stipendi più alti a insegnanti, medici e personale pubblico.

Nella teoria del federalismo fiscale, ciò dovrebbe innescare una competizione virtuosa tra regioni che, come risultato, farebbe innalzare la qualità dei servizi anche in quelle più arretrate. Ma la realtà non sempre si conforma alle previsioni della teoria. E in un paese come il nostro è più probabile che le differenze nei servizi e nei salari dei lavoratori pubblici e privati non portino all’uguaglianza di condizioni, ma alimentino le già consistenti migrazioni dal Sud verso il Nord. Ciò, in un meccanismo cumulativo, fornisce risorse allo sviluppo delle aree più ricche, mentre contribuisce all’arretramento di quelle più povere. La richiesta di maggiore autonomia, che ha alla sua origine il problema delle disuguaglianze regionali, comporta, come esito, che quel problema si aggravi.

Tratto da “L’Italia differenziata. Autonomia regionale e divari territoriali” (Rubettino), di Vittorio Daniele e Carmelo Petraglia, pp.168, 17,10 €

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