Sono arrivato in Israele all’indomani del 7 ottobre. All’aeroporto Ben Gurion gli allarmi risuonavano a ritmo sostenuto. Tel Aviv e Gerusalemme, gelide malgrado il calore dell’estate tardiva, sembravano delle città morte. Sderot, città ripetutamente martire, alla frontiera con Gaza, si era svuotata, anch’essa, di quasi tutti i suoi abitanti. Conoscevo il posto. Da vent’anni cerco di passarci, per principio, in occasione di tutti i miei viaggi. E nel 2009 e 2014, all’epoca delle due precedenti guerre di Gaza, quando si viveva 24 ore su 24 nei rifugi, sotto i missili, ero rimasto, per dovere di cronaca, un po’ più a lungo.
Ma non l’avevo mai vista in questo stato di desolazione. Non mi sarei mai immaginato di trovare all’entrata della città, al centro della strada Menahem Begin priva di automobili, le spoglie di un jihadista ucciso e ricoperto da un telo blu che lasciava intravedere le gambe annerite, coperte di formiche e in via di decomposizione sotto uno squarcio di sole. Così come non mi sarei aspettato di ritrovarmi faccia a faccia, davanti alla stazione di polizia incendiata, di cui restava solo lo scheletro, con il mio omonimo, Gideon Lévy, giornalista di “Haaretz” e violento critico di Israele…; ho molti omonimi; con qualcuno di loro ho avuto l’occasione di riflettere sulle facezie di uno spirito ebraico che getta negli stessi nomi i destini ebrei più diversi: ma questo Lévy… mi sorprendo a stringergli la mano, condividendo il medesimo stato d’animo in uno stupore che ignorava, all’improvviso, i nostri pensieri precedenti… ritrovarsi, insieme, di fronte a un pubblico in cui si mischiavano vigili del fuoco, poliziotti, soldati dell’Idf arrivati in mattinata o riservisti accorsi prima, di loro iniziativa, perché un genitore, un amico, un compagno di reggimento, li aveva chiamati da una panic room per avvisarli in un sussurro, e per alcuni sono state le ultime parole da vivi: “I lupi sono entrati in città; li percepiamo; li sentiamo; sono in giardino, in salotto, nella stanza dei bambini; proprio in questo momento, mentre mi spingo contro la porta, stanno tentando di forzare la serratura.”… Anche questo non l’avrei immaginato.
Nei kibbutz è stato peggio. Questi, li conoscevo da tanto tempo. Sapevo che erano il bastione di quel sionismo laico, liberale, pacifista che era stato, dal 1967 e dalla guerra dei Sei Giorni, il mio primo legame con Israele. Ero stato a Kfar Aza, per esempio, con Ely BenGal, intellettuale progressista, salvato dalla Shoah da un Giusto tra le Nazioni di Chambon-sur-Lignon, che qualche mese prima vi aveva accompagnato Sartre e Beauvoir. A Be’eri, il kibbutz accanto, avevo soggiornato a casa di ebrei curdi il cui progetto era far rivivere il sogno dorato di una coabitazione con i loro fratelli arabi che solo la tirannia di Saddam Hussein, mi dicevano, aveva distrutto nel loro paese natale, l’Iraq. E anche se sono entrato solo dopo i primi reportage dei canali israeliani, anche se le squadre di Zaka – l’Ong il cui santo compito è quello di ritrovare i pezzi mancanti dei corpi al fine di dar loro, ricomposti, una sepoltura umana ed ebraica – erano passate prima di me e ne avevano inumato la maggior parte, non dimenticherò tanto presto né l’odore di latte acido che regnava nelle case prese a colpi di mitra, disossate, mezzo bruciate, con i loro armadi in legno di faggio chiaro il cui umile contenuto era volato tra le stanze, e che sembravano sopravvissute a un uragano; né le strade ben disegnate, fiancheggiate da graziose abitazioni, con i loro giardini intatti dove tacevano il suono della voce umana e il canto degli uccelli; né la testimonianza dei sopravvissuti e dei soccorritori che raccontavano, tutti, la raccolta dei morti, alcuni dei quali decapitati e fatti a pezzi, altri carbonizzati, altri con il corpo bucato da proiettili e le mani a brandelli come se si fossero battuti fino all’ultimo istante; né, infine, la serra in cui erano stati collocati dei pezzi di corpi non attribuiti da poco recuperati – un mucchietto, carni intraviste e indistinte, odore denso.
Poi, ho incontrato alcune famiglie di ostaggi. Mi ricordavano i genitori del soldato Shalit, che quindici anni prima ero venuto a trovare in una casa simile. Rivedevo i genitori di Daniel Pearl incontrati a Encino, in California, nei primi giorni dell’inchiesta in cui ripercorrevo i passi del giovane giornalista ebreo rapito, tentando di ricostruire gli ultimi giorni e di avvicinarmi il più possibile agli jihadisti di al-Qaida che, alla fine, l’avevano decapitato. In tutti lo stesso sgomento. In tutti il medesimo stupore e la stessa difficoltà nel trovare le parole. E in tutti, quando le parole alla fine arrivavano, le stesse frasi: “Noi, i sopravvissuti… di nuovo i sopravvissuti… siamo pronti a dare tutto, tutto, persino la nostra vita, perché torni un bambino rapito senza il biberon, una sorella di cui si è intravisto sui social media il corpo seminudo, insanguinato, buttato come un pacchetto nel cassone di un pick-up, o una nonna a cui i rapitori non hanno lasciato il tempo di salutare nessuno…”
E poi altri sopravvissuti, quelli del rave party o quelli sempre di Be’eri ma evacuati a Tel Aviv, che mi raccontano dei barbari spuntati dal nulla; la loro ferocia muta e senza fiato; le corse all’impazzata; le mitragliate; le moto lanciate a tutta velocità e sulle quali arrivavano in due, talvolta in tre, le gambe del terzo dietro che scalciavano nel vuoto; i volti grigi nei quali si distinguevano solo all’ultimo momento, nella penombra della camera, gli occhi luccicanti di odio; il lato insieme caotico e ben organizzato di tutto questo, rapidissimo e molto lungo; i pianti dei neonati; le grida incredule dei bambini e i loro occhi sgranati dal terrore: gli agonizzanti che strisciavano fino al cellulare per inviare un ultimo messaggio; il telefono senza più batteria; un proiettile in testa, l’ultimo, per pietà; li si sarebbe detti delle Einsatzgruppen; mai, dai tempi della Shoah par balles* si erano visti degli ebrei massacrati in questo modo, a bruciapelo, solo perché erano ebrei; e allo stesso tempo, no, bisognava fare attenzione e io dovevo mettere a tacere nella mia testa la sfilata di ricordi e immagini, qualsiasi somiglianza con una situazione precedente era priva di significato perché eravamo di fronte a un fatto del tutto particolare.
Siamo all’indomani del 7 ottobre. Sono concentrato solo sulla guerra contro l’Ucraina. Occupa tutto il mio tempo, attrae tutti i miei pensieri, mobilita tutte le mie energie da quasi due anni. Ma capisco, in questo momento, con il cuore ghiacciato, che si è appena verificato un evento la cui deflagrazione, lo shock, lo spostamento d’aria non assomigliano a niente di conosciuto e cambieranno il corso delle nostre vite. Tutti gli eventi non sono eventi. Non tutti hanno la potenza storica, epocale, instauratrice di un’era, di ciò che il filosofo tedesco Reiner Schürmann chiama un Evento. Il pogrom del 7 ottobre 2023 è stato uno di questi: ecco perché.
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Tratto da “Solitudine di Israele” (La Nave di Teseo), di Bernard-Henri Lévy, 17€, pp. 176