Il dibattito Trump-Harris è finito con il team Trump che si è molto lamentato dei due moderatori della rete televisiva Abc per aver fatto, almeno un paio di volte, il fact checking in tempo reale alle fantasmagoriche panzane sparate da un livido Donald, durante l’oltre ora e mezza di confronto. Un altro modo di vedere le cose è che i due conduttori l’abbiano fatto soltanto in due o tre occasioni, e non in quelle duecento o trecento volte che sarebbe stato necessario.
Ciò che si ricorderà di questo duello televisivo, che magari sposterà poco in termini elettorali in un paese profondamente diviso tra forze liberali e illiberali, è che Trump ha accusato gli immigrati di mangiarsi i cani, i gatti e gli animali domestici dei cittadini americani, e i democratici di voler uccidere i bambini anche oltre i nove mesi di gravidanza.
Un altro modo di vedere le cose è che Kamala Harris sul palco di Philadelphia ha politicamente ucciso un bambino di 78 anni, facendolo uscire fuori dai gangheri più di una volta, ricordando agli americani quanto in realtà sia bullo, adolescenziale, debole, egoista, razzista, mitomane, corrotto e facilmente manipolabile. In una parola, che Harris non ha usato ma che sintetizza alla perfezione la linea di attacco della vicepresidente, Harris ha spiegato quanto Trump sia «antiamericano».
Trump è la negazione dei principi della Dichiarazione d’indipendenza del 1776 e della Costituzione del 1787, ma è anche il perfetto rappresentante, quanto i leader secessionisti del sud razzista ai tempi della Guerra Civile, dell’America illiberale che fin dalla fondazione ha provato a minare le fondamenta dell’esperimento liberale americano. A questo proposito: tra qualche giorno uscirà in libreria un saggio formidabile di Robert Kagan, “Insurrezione”, edito da Linkiesta Books, una lettura necessaria se si vuole capire esattamente il pericolo che l’America e il mondo rischiano di correre il 5 novembre prossimo.
La requisitoria di Kamala Harris è stata molto efficace, anche se non è riuscita a ribattere a tutte le bugie di Trump su qualsiasi argomento possibile. Forse Kamala avrebbe dovuto essere ancora più coraggiosa, e provare a sferrare il colpo del ko, ma in ogni caso ha messo il suo permaloso avversario nella condizione di dover parlare sempre d’altro e di trovare il modo di curare le numerose ferite al suo ego, soprattutto quando Kamala gli ha detto che ai suoi comizi i suoi stessi fan si annoiano e se ne vanno prima della fine, che è un imprenditore fallito, che i leader internazionali ridono di lui («Putin ti mangia a colazione», gli ha detto Harris).
Sintomatico che la risposta di Trump su questo ultimo punto sia stata ripetere tre volte che quello che secondo lui sarebbe uno dei più autorevoli leader mondiali, il premier ungherese Viktor Orbán, invece lo consideri un genio. Cioè, Trump ha messo nel curriculum il sostegno del più screditato leader dell’Occidente, confidando nel fatto che nessun americano sappia niente di Orbán e non abbia mai sentito nominare l’Ungheria.
Ai fini elettorali, più rilevante dell’endorsement a Trump del campione europeo della democrazia illiberale, nonché fantoccio di Putin dentro l’Ue, sarà certamente l’annuncio di voto a favore di Kamala Harris, arrivato subito dopo la fine del dibattito, che Taylor Swift ha comunicato ai suoi 283 milioni di follower, firmandosi «gattara senza figli» per prendere in giro una delle più grottesche uscite del vice di Trump, JD Vance, contro le donne senza figli, ritenute per questo non patriottiche.
Harris è stata particolarmente efficace sulla questione del diritto delle donne a decidere del proprio corpo, che è la singola motivazione di voto più popolare a suo favore, ma anche su molte altre cose, dal sostengo alla classe media e all’Ucraina.
Trump ha scelto la strategia a lui più consona: non rispondere mai alle domande nel merito, chiedere sempre l’ultima parola per subissare l’avversaria e i telespettatori di frottole sempre più stravaganti per provare a risultare efficace e forte agli occhi dei suoi tanti seguaci totalmente disinteressati alla realtà dei fatti.
Per Trump è un problema, però, se Mike Pence, Mark Esper, John Bolton, John Kelly, James Mattis, Mark Milley, H.R. McMaster, Rex Tillerson, Dan Coats e Bill Barr non lo voteranno perché lo considerano «unfit», inadatto, a guidare il paese.
Se il suo vicepresidente, il suo ministro della giustizia, entrambi i suoi ministri della difesa, il suo ministro degli esteri, due suoi capi dell’intelligence, il suo capo delle Forze armate e il suo capo di gabinetto hanno detto che non lo voteranno qualcosa vorrà dire. Così come qualcosa vorrà dire se l’ex vicepresidente Dick Cheney, considerato ai tempi dei due Bush il più conservatore dei leader repubblicani, voterà Harris, o se oltre duecento dirigenti delle Amministrazioni Reagan, di entrambe le presidenze Bush, e dello staff di Bob Dole, di John McCain e di Mitt Romney, ovvero di tutti i candidati repubblicani alla presidenza degli ultimi 40 anni, voteranno per la candidata democratica e non per il repubblicano Trump.
Come aveva già fatto alla convention di Chicago di fine agosto, Harris ha ribadito agli elettori che la scelta il 5 novembre è semplice. Da una parte c’è il passato, il caos, la divisione razziale, il mettere gli americani gli uni contro gli altri, l’abbandono degli alleati, la passione per i dittatori, l’irritazione per la democrazia, l’insofferenza per lo stato di diritto. Dall’altra c’è l’America.