Sistema artificiale Il bipolarismo non è una legge di natura, ma l’oblio della responsabilità politica

Da tre decenni viviamo un meccanismo che soffoca la diversità, perpetua la polarizzazione e alimenta un clima politico populista, in cui la razionalità e la accountability sono spesso sacrificate

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È almeno dai tempi di «Sciolta Civica» – così fu ribattezzato il partito montiano per la débâcle alle europee del 2014, un anno dopo l’exploit all’otto per cento delle politiche del 2013 – che la politica e la stampa italiana si divertono a infierire sull’inconsistenza, i fallimenti o le disgrazie dell’area liberal-democratica, per trarne una conclusione coerente con la tesi – solo italiana, ma in Italia indiscutibile – che qualunque proposta politica centrifuga rispetto agli equilibri di un bipolarismo coatto costituirebbe, di per sé, una grave anomalia democratica e andrebbe ricondotta nei ranghi dell’o di qua o di là.

Nel mondo esistono sistemi politici bipartitici (pochissimi) o multipartitici (la gran parte) e leggi elettorali maggioritarie, proporzionali o miste, ma non esiste se non in Italia un bipolarismo decretato ex lege, come quello che ci si è sforzati di realizzare sul piano nazionale e locale negli ultimi trent’anni, e assistito da meccanismi elettorali neppure incentivanti, ma deliberatamente costrittivi: le coalizioni pre-elettorali, i premi di maggioranza o addirittura gli sbarramenti differenziati tra forze coalizzate o non coalizzate, cioè tra i partiti più uguali e i meno uguali degli altri.

Come però succede anche al di fuori della materia istituzionale, il fatto che l’Italia segua strade da nessun altro Paese percorse e adotti regole mai utilizzate, peraltro con risultati molto deludenti, non suscita sospetto, ma un misto di orgoglio e di senso di superiorità per questa tenace esplorazione dei confini esterni della normalità. Lo facciamo solo noi: il crisma dell’eccellenza. Che si parli di taxi, di istruzione, di sanità, di pensioni o di leggi elettorali – uguale.

Dunque finché, tra le crepe o in mezzo alle macerie delle illusioni, non ci risveglieremo dal sonno dogmatico della democrazia bipolare, c’è da credere che la tribalizzazione dello scontro politico proseguirà in forma sempre più pericolosa e nichilistica e ogni dissociazione individuale o collettiva da questa logica continuerà a essere per lo più censurata come una velleitaria e colpevole diserzione dalla guerra contro il nemico di là dalla barricata. Stai coi fascisti, stai coi comunisti, stai con lo straniero, stai con il demonio.

Sia chiaro: le sfortune dell’area liberal-democratica, anche le più recenti, non sono indipendenti dall’idiosincrasia snobistica, dall’ingenuità, dall’opportunismo o perfino dalla malafede di molti suoi protagonisti (ognuno scelga il cattivo che preferisce, a discrezione), né dalla riluttanza o incapacità di organizzarsi – di tutti, non solo dei leader – secondo regole rispettosamente politiche, diverse da quelle di un circolo della conversazione o di un one man (o woman) party.

Ma la ragione fondamentale per cui nulla sembra resistere alla stretta della morsa bipolare è che in Italia il bipolarismo esprime sia il massimo dell’ostilità, sia il massimo dell’uniformità ideologica degli schieramenti politici all’insegna del populismo, che non è solo la fine dell’intermediazione istituzionale, ma anche della razionalità e dell’accountability morale come infrastruttura dei processi democratici. Non può esistere la democrazia dei terrapiattisti e delle fattucchiere, dei don Ferrante e delle Caterina Rosa, dei seguaci di Vanna Marchi contro quelli della veggente di Trevignano. Però in Italia il bipolarismo è esattamente questo, e purtroppo si esercita su temi ben più delicati delle smagliature sulle cosce e sulle pance delle casalinghe o sulle apparizioni fai-da-te della Madonna.

Il bipolarismo è il modo in cui si realizza, nella forma più perfetta e condivisa, la fuga della politica dalla realtà e l’oblio della responsabilità e – parola impegnativa, ma necessaria – della verità e in cui si consuma l’irreparabile dissociazione tra la democrazia e lo Stato, tra la sfida del consenso e quella del governo, tra quello che bisogna dire per vincere le elezioni e quello che bisogna fare per tenere più o meno in piedi la baracca per arrivare alle successive, rinviando il momento del redde rationem.

Il bipolarismo è la forma condivisa dell’alienazione politica italiana, è la democrazia ricacciata nella caverna delle ombre di Platone, è il regime della menzogna che promette il regno della fortuna. La parola coniata sulle pagine di questo giornale – bipopulismo – designa esattamente questa catastrofe e questo tradimento. Perché impegnarsi a stare fuori da questo gioco, con la buona probabilità di apparire degli sfigati e dei presuntuosi, dei perdenti e degli arroganti pieni di sé, di frustrazioni e di complessi, che non si rassegnano a come va il mondo?

Il rientro nei ranghi bipolari di molti protagonisti dell’ex Terzo Polo – Italia Viva con Renzi che torna a sinistra, gli ex forzisti di Azione che tornano a destra – che appartiene alla cronaca e non farà la storia, ma chiude definitivamente la vicenda del 2022, si spiega certo con ragioni più o meno opportunistiche, ma anche con questa fatica, con il prezzo personale e politico di una corvée donchisciottesca, di cui anche la stampa potenzialmente amica si diverte a vaticinare l’immancabile fallimento, quasi che il bipolarismo fosse una legge di natura, come la forza di gravità e non una parafilia politica tutta italiana e il framework di decenni di declino economico e civile.

Rimane però il fatto che la lotta contro questo bipolarismo e la lotta per la salvezza dell’Italia sono due facce della stessa medaglia, come dimostra la parabola di Mario Draghi, la cui parentesi di governo e le cui prediche inutili italo-europee non stanno lasciando la minima traccia nella coscienza e nella volontà politica degli italiani, che dopo averlo apprezzato e applaudito come tecnico sono tornati a votare disciplinatamente e in grande maggioranza quelli che l’hanno liquidato come il procuratore dei cattivissimi poteri forti.

In quello spazio semi-deserto, che per mille ragioni è sbagliato identificare topograficamente come centrista (sarebbe idealmente lo spazio di Alcide De Gasperi e Giacomo Matteotti, di Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini), oggi sono rimasti il partito di Azione e una serie di piccole organizzazioni e presenze liberali minacciate da un destino pulviscolare. Ma quello è comunque il luogo in cui chi c’è oggi, o chi ci sarà domani, dovrà continuare a giocare una battaglia magari perdente, ma decisiva. Non si tratta di proclamare una sempiterna indipendenza o una superba inalleabilità. Si tratta, più concretamente, di provare a smontare o almeno a intralciare i meccanismi di funzionamento di questa macchina infernale, di contestare premesse e conclusioni dell’egemonia culturale bipopulista e anche di negoziare alleanze, se e dove possibile, che abbiano però un senso e un contenuto diverso da un semplice diritto di tribuna e di qualche seggio ad honorem.

In un Paese di maramaldi e assaltatori di carri vincenti, è comprensibile che la sconfitta di un’impresa sembri dimostrare la sua stupidità, quando dimostra semplicemente la sua sconfitta. Non erano stupidi gli antifascisti degli anni ’30, erano semplicemente perdenti, ma sul fascismo – come scoprirono anni dopo anche i frequentatori di Piazza Venezia – avevano ragione loro. E mille ragioni conservano oggi, dopo tutte queste sconfitte, quanti si ostinano a resistere alle seduzioni dell’accasamento bipopulista.

L’alternativa a questa fatica è quella di un assai poco appassionante, meglio remunerato e del tutto irrilevante micro-bipolarismo tra i “liberali con Conte” e i “liberali con Salvini”, tra i frondisti del campo largo e del campo patriottico, tra le foglie di fico dei demo-populisti e dei populo-sovranisti.

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