Quando acquistiamo della carne, il prezzo che paghiamo non tiene conto di un aspetto importante: il notevole peso ambientale che ha sul sistema. Se aggiungessimo ai costi di produzione anche i costi indotti, come la deforestazione e l’uso dell’acqua, il prezzo della carne dovrebbe essere decisamente più alto.
Per anni, gli economisti hanno sviluppato un sistema di “contabilità dei costi reali” basato su un crescente numero di prove sui danni ambientali causati da diversi tipi di agricoltura e allevamento. Oggi hanno provato a tradurre questi danni al pianeta in cifre, sperando che una consapevolezza economica possa cambiare i comportamenti.
Il New York Times ha chiesto a True Price, un gruppo olandese senza scopo di lucro che ha iniziato a tenere la “contabilità” dei costi reali della produzione di alimenti, insieme alle Nazioni Unite e alla Fondazione Rockefeller, di condividere i risultati di queste ricerche. Sono costi stimati, ovviamente, ma la ricerca – seppur di parte – è decisamente affidabile. E mostra come dai nostri acquisti dipende molto di più di una scelta di nutrimento. I costi di cui tenere conto sono complessi da calcolare perché mettono insieme i costi di produzione ma anche quanto questa impatta sul pianeta, ma anche sul sistema sanitario, sui meccanismi di adattamento climatico e su quanto graveranno poi sotto forma di tasse. La contabilità dei costi reali include in genere anche aspetti come i diritti dei lavoratori e la salute alimentare, solo apparentemente lontani. È quindi una misurazione davvero complessa, e che deve necessariamente guardare al futuro e a come ogni aspetto produttivo impatta sull’oggi ma anche sul domani: è quindi un esercizio di stile, più che una certezza. Ma è comunque molto utile perché ci permette di misurare in maniera più precisa e tangibile quello che finora abbiamo considerato un “male necessario” o un “danno collaterale”. E, in effetti, se il nostro obiettivo primario è nutrire il maggior numero di persone possibili, le analisi dei costi reali sottovalutano i benefici di un cibo a prezzi accessibili per tutti. Si tratta solo di capire qual è l’emergenza più impellente a cui dobbiamo far fronte.
E se per alcune nazioni il peso ambientale è secondario rispetto al nutrimento della popolazione, alcuni governi della parte fortunata del mondo stanno usando questa ricerca per progettare politiche che tengano conto degli effetti ambientali del cibo. Perché l’accesso al cibo sano e sostenibile deve essere un diritto, e non una scelta: pochi consumatori pagherebbero volontariamente prezzi reali se potessero semplicemente andare nei negozi di alimentari convenzionali. Anche se lo facessero, non sarebbe facile usare il denaro extra per risolvere i danni causati dalla produzione alimentare. Serve dunque un intervento statale che possa spingere gli agricoltori e le aziende agroalimentari a cambiare il loro modo di operare. I rimedi sono tutto sommato “facili”: usare acqua e pesticidi con più parsimonia, o far ruotare il bestiame in modo che non degradi terreni e rive dei fiumi, o passare all’energia elettrica per i trasporti e la produzione. Ma potrebbe anche significare per i governi distribuire diversamente le risorse e spostare su altro gli incentivi dati alle aziende che producono carne e latticini, ad esempio sovvenzionando l’assicurazione per gli agricoltori che coltivano mangimi per animali.
Dalle ricerche di True Price per il New York Times, i dati sono inequivocabili: la carne bovina ha i costi ambientali più elevati tra gli alimenti esaminati, perché i bovini sono molto inefficienti nel convertire ciò che mangiano in peso corporeo. Per ogni cento grammi di proteine che una mucca mangia, meno di quattro grammi finiscono nella carne bovina che mangiamo noi. Inoltre le emissioni dei ruminanti rimangono uno dei temi chiave del surriscaldamento del pianeta, insieme alla quantità di terra necessaria a coltivare i loro mangimi. Il formaggio ha un costo ambientale più elevato rispetto al pollo o al maiale, perché la produzione di formaggio richiede molta acqua. Il pollo è meno dannoso per l’ambiente rispetto al manzo e al maiale, in parte perché i polli sono più piccoli e crescono più velocemente, quindi ci vuole meno cibo per ingrassarli, poi perché emettono meno metano e producono proporzionalmente meno letame rispetto alla maggior parte degli animali che mangiamo. Ma non possiamo dimenticare che per farli crescere in questo modo “efficiente” è necessario che crescano in condizioni industriali.
E quindi? Da dove possiamo recuperare le proteine che ci servono? Dalla soia, una delle colture a più rapida crescita al mondo, e meno considerata per l’alimentazione umana, visto che fornisce circa la metà delle proteine della carne e utilizza meno acqua rispetto ad altre proteine vegetali come le lenticchie. Ma se parliamo di tofu, un derivato diretto della soia, scopriamo che per la sua produzione si emettono molti gas che riscaldano il pianeta e occupa comunque terreni dove potrebbero crescere alberi o praterie, e questo ha un costo opportunità ambientale. Forse ce la faranno i ceci? Al momento sembrano l’alternativa migliore.
Come sempre, leggendo attentamente le ricerche e gli studi, ci rendiamo conto di quanto sia arduo prendere una decisione definitiva e efficiente, che vada bene per tutti e tenga conto di tutti gli obiettivi che ci poniamo: perché la complessità del mondo è diventata tale da rendere difficile e articolata ogni scelta, che porta con sé una serie di conseguenze difficilmente misurabili e prevedibili.