Abbiamo superato Baricco. Prima era che accadono cose che sono come domande, passa un minuto, oppure anni, e la vita risponde; e ora ci siamo evoluti ed è diventato tutto contemporaneo, – sarà che il palinsesto è on demand, come dicono quelli che non parlano nessuna lingua.
Accadono Kamala Harris e Trump, e “Temptation Island” risponde. Oppure accade “Temptation Island”, e l’assenza di Maria Rosaria Boccia al falò della Berlinguer risponde. Ma di questo parliamo domani con calma, perché io ora vorrei parlarvi del palinsesto sul mio telefono ieri mattina.
Accadevano articoli di giornali italiani che indignavano moltissimo le vongole che mi passavano davanti sui social. Accadeva infatti che alcuni attori avessero firmato un appello, vedendo il quale io avevo pensato solo: che ottimo lavoro, l’ufficio stampa di Rizzoli.
Non poteva essere un caso se, nel giorno dell’uscita dell’edizione italiana di “La generazione ansiosa”, alcune persone famose firmavano un appello per chiedere che i cellulari e i social venissero vietati ai loro figli adolescenti. È da quando il libro di Jonathan Haidt è uscito in America che la gente famosa di lì ci spiega d’aver capito che danni pazzeschi facciano i telefoni con la telecamera e l’accesso ai social sui cervelli dei figli, convincendoci vieppiù che per diventare famosi non occorra essere intelligentissimi: ci è voluto un saggio, per farvi vedere quel che avete sotto gli occhi ogni giorno?
L’appello di qui resterà un manifesto di buone intenzioni come le contrizioni di lì: per quanto legga da mesi che i ragazzini hanno capito il danno e ora chiedono in regalo dei Nokia di quelli che ci metti minuti a mandare un messaggio perché ogni lettera richiede che tu spinga tre o quattro volte un tasto, non ci credo neanche se i ragazzini in questione bruciano l’iPhone nel mio caminetto. Sono una generazione che senza le mappe stradali non sa arrivare al bar all’angolo: senza un telefono connesso a internet si lascerebbero morire di fame.
Oltretutto la richiesta – di un divieto ai minori di quattordici anni per i cellulari, e ai minori di sedici per i social – dimostra che si perpetua l’equivoco per cui il pericolo più cogente sono i social, mica i telefoni con la telecamera. Ci sono adulti convinti che, se le figlie smettono di mangiare, sia perché mettono i video su TikTok e le commentatrici dicono loro che sono delle culone, mica perché se ti guardi tutto il giorno in quello specchio che è la telecamera del telefono sviluppi insicurezze pure se sei una cinquantenne che tenta di farsi rateizzare l’iva, figuriamoci se sei una quindicenne che tenta di farsi notare dal biondino della terza B. (Ma poi, nei due anni in cui gli dai il telefono e non i social, cosa dovrebbero farsene del telefono? Andare su Wikipedia a leggere il bignami elettronico della lezione che non hanno studiato?).
E quindi alcuni psicoterapeuti chiedono una cosa che tutti (tranne Carlo Calenda, che continua a invocare i documenti per accedere ai social) sappiamo non possa essere regolamentata dalle leggi: tranne quello cinese, i social sono tutti roba degli Stati Uniti d’America, un paese in cui i documenti molti manco ce li hanno, ti fai il passaporto se devi viaggiare, ma molti americani figurarsi se viaggiano, ti fai la patente se devi guidare, ma ci sono persino americani che non guidano (pochi ma ci sono), e per il resto viene percepito come un sopruso che qualcuno ogni tanto proponga l’obbligatorietà del documento per votare. (I diritti sono innanzitutto questione di abitudine: a loro sembra normale la gestazione per altri, a noi sembra normale la carta d’identità).
La chiedono degli psicoterapeuti perché che altro deve dire, uno che si occupa di psiche, se non che la psiche viene danneggiata da quegli attrezzi (la cosa grave è che ne vengono danneggiati i neuroni, che sono più preoccupanti rispetto alla psiche giacché la psiche è una speculazione filosofica, mentre il cervello esiste di certo).
Ma noi, che viviamo nella società dello spettacolo ormai da mezzo secolo ma non abbiamo sviluppato alcun anticorpo alla celebrità, ci preoccupiamo dell’appello solo perché lo firmano Stefano Accorsi e Luisa Ranieri. Qual è il numero di elezioni l’esito delle quali è opposto rispetto ai consigli della gente famosa che serve perché ci passi quest’idea che a qualcuno importi qualcosa di cosa pensa la gente famosa degli argomenti seri? Quanti girotondi servono, per farci gli anticorpi?
Mentre su Twitter spiritoseggiano sull’appello chiedendo se manderemo i carabinieri a casa dei ragazzini col cellulare, mi arriva la risposta dal Washington Post. In contemporanea, senza che passino minuti né tantomeno anni. Alla rubrica di consigli di Carolyn Hax scrive una venticinquenne che vive a New York.
Ha trovato un lavoro, si è trasferita dal paesino, divide casa con tre ragazze, fa la vita che abbiamo fatto tutte all’inizio della nostra vita. Solo che i genitori, rimasti al paesino, sono convinti che New York sia quella del 1982, immagino (i genitori d’una venticinquenne dovrebbero avere più o meno sessant’anni, e il mondo di tutti noi è fermo a quando ne avevamo venti). Vivono nel terrore che alla piccina accada qualcosa di brutto, una rapina, un delitto, un topo gigante che la divori.
La chiamano cento volte al giorno, se non risponde chiamano i suoi coinquilini, a quel punto lei ha dovuto dire ai coinquilini di bloccare il numero dei genitori invadenti, e il risultato è stato che si è ritrovata la madre in lacrime perché non riuscivano a parlare subito con la figlia e il padre voleva chiamare la polizia e gli è quasi venuto un infarto.
È la lettera alla Hax la risposta all’appello italiano perché i ventenni coinquilini, d’una generazione che il telefono lo usa per tutto tranne che per telefonare, saranno stati terrorizzati dal dover parlare con ’sti estranei ben più di quanto gli adulti lo fossero rispetto all’ipotetica morte della figlia? Anche, ma non solo.
È la lettera alla Hax la risposta all’appello italiano perché ci dice che ormai persino gli adulti si sono abituati alla reperibilità costante, e se non ti trovano panicano, e come diavolo pensiamo di gestire le relazioni tra umani abituati a potersi contattare cinque volte se ci si deve trovare in un bar per avvisare d’ogni contrattempo e ordinario ritardo, se a una delle due parti della relazione togliamo il telefono? Anche, ma non solo.
Soprattutto, la lettera alla Hax è la risposta a chi sghignazza perché i genitori vogliono che i telefoni ai puccettoni glieli levi una legge dello Stato. Un mondo in cui i genitori pensano che una venticinquenne con un lavoro sia tale e quale a un dodicenne che deve avvisare se torna tardi dalla merenda a casa del compagnuccio di scuola, un mondo in cui i genitori elemosinano rassicurazioni da migliaia di chilometri di distanza come fossero corteggiatori respinti, un mondo così vi pare un mondo in grado di cavarsela col caro vecchio «tu il telefono non ce l’hai e non me ne frega niente se Tizio ce l’ha, tu su TikTok non ci vai perché in questa casa comando io»?
Accadono genitori consapevoli che senza i gendarmi con i pennacchi i loro figli faranno ciò che è gradevole e fonte d’immediata dopamina e non ciò che è giusto sul lungo termine e non gli massacra lo sviluppo della corteccia prefrontale, accadono genitori che si arrendono all’inettitudine della loro specie, ed essi sono una buona notizia. Passa un minuto e un migliaio di cuoricini, e la vita risponde con l’imbecillità di quelli che pensano di potersela cavare con le loro forze.