Il bello d’essere interessate al presente ma molto pigre è che i dubbi che ti poni e gli studi che pensi andrebbero fatti prima o poi li fa qualcun altro, e tu puoi limitarti ad annuire senz’aver dovuto lavorare.
Negli ultimi due anni – cioè da quando il tempo di permanenza su Instagram è aumentato causa clausura: ricordate quando, a inizio pandemia, si facevano più dirette Instagram che pagnotte in casa? – ho spesso riflettuto su come guardarci perpetuamente cambiasse il nostro cervello. («Nostro» è un ego sovraesteso: io sono riuscita, dall’inverno 2020 a ora, a fare due sole dirette Instagram e non più di cinque Zoom; ma, come dicono sui Baci Perugina, nulla di ciò che è umano mi è alieno, e quindi, se guardarsi nello schermo del telefono è un problema dell’umanità mia coeva, lo tratterò come fosse mio).
Improvvisamente era Las Vegas. Vivevamo tutti in case foderate di specchi: se hai davanti uno schermo in cui ci sono quelli con cui parli ma ci sei anche tu, riuscirai a non guardare la tua immagine tutto il tempo? Ho passato i miei pochi Zoom a guardare sconfortata i miei capelli, inutilmente acconciati da parrucchieri che venivano illegalmente a domicilio, e miseramente crollati sempre un minuto prima della diretta. Sono la meno interessata al proprio aspetto tra le donne che conosco, ma lo sono se non mi metti davanti uno specchio: se mi vedo nel monitor, come diavolo faccio a non notare che aspetto ho?
Ho chiesto ad alcune influencer che cosa facesse al loro cervello il fatto di dover essere sempre presentabili, sempre fotogeniche, sempre pronte alla ripresa (camera ready, dicono in quella lingua meno fossilizzata della nostra). Erano le persone sbagliate cui chiedere: per loro quella era la normalità; erano le vite di noialtre che fino ad allora avevamo messo su Instagram la foto della pizza, a venire stravolte.
Non è normale, mi dicevo. Qualcuno deve studiare questo slittamento della percezione, mi dicevo. Per fortuna è arrivato Haidt.
Jonathan Haidt è uno psicologo sociale, ma soprattutto è il coautore del libro che non potete non aver letto se volete capire qualcosa del tempo sbandato che abitiamo, “The Coddling of the American Mind“.
Adesso ha pubblicato un lungo studio, sull’Atlantic, sull’influenza dei social media sulla percezione di sé che hanno le ragazzine, e conseguenti depressioni e altre patologie della psiche.
La me quarantanovenne si vede nello schermo, pensa «ammazza che ciofeca», pensa «per fortuna non mi pagano per essere decorativa», e il problema si risolve da sé; la me quindicenne era proprio una quindicenne – una che, se non è decorativa, a che altro serve? Ad avere opinioni interessanti su Wittgenstein? – e per fortuna non veniva proiettata nel mondo, altrimenti la sua reazione allo scoprire che la propria immagine non era quella che credeva sarebbe stata equilibrata quanto quella della Sandrelli quando si scopre ridicola nel cinegiornale, in quella scena di “Io la conoscevo bene”. (Se non avete mai visto “Io la conoscevo bene”, smettete di leggere e ponete immediatamente rimedio, è su RaiPlay e su Prime).
Poiché Haidt è una persona seria, le obiezioni se le fa da solo.
Certo, può essere che il peggior stato collettivo della psiche adolescente sia il frutto d’un periodo in cui tutto, anche un pomeriggio di malumore, è «salute mentale»; però i dati dicono che tra il 2010 (anno in cui è arrivato Instagram nelle nostre vite) e il 2014, negli Stati Uniti, sono raddoppiati i ricoveri di preadolescenti che si tagliuzzavano o tentavano il suicidio.
Potrebbe essere che l’angoscia sia dovuta alla crisi economica post-2008, ma perché le adolescenti femmine dovrebbero essere le più colpite da un malessere del genere?
Dice Haidt che se metti un cellulare in mano a un maschio giovane della specie, egli probabilmente lo userà per un videogioco, non per controllare quale filtro gli faccia gli zigomi migliori. Non ne sono così sicura. Vedo ovunque maschi che passano il tempo a controllare quale dei loro tagli di tre quarti sia più fotogenico. Il mio parrucchiere, un poco più che ventenne di provincia, manda i selfie alla mamma a seicento chilometri; solo quando lei gli conferma che siano venuti bene, s’instagramma. Tutte le mattine. Con filtri, effetti, e capelli che io non riesco a distinguere tra una foto e l’altra (il che lo innervosisce molto: sono una cliente che non dà soddisfazione).
Come già il direttore di questo giornale (evidentemente egemone) (tutta quest’ironia andrà ovviamente perduta), Haidt chiede che sia la politica a regolamentare tutto ciò. Ma non è possibile: se anche gli Stati Uniti d’America abolissero Instagram, ormai abbiamo imparato che nessun Lindbergh o altro professionista ci farà belle quanto l’autoscatto di noialtre che conosciamo i nostri difetti e come occultarli. È la telecamera del telefono, la colpevole, mica la piattaforma su cui ne riversiamo i prodotti.
Una cosa Haidt non dice, ed è una cosa che invece penso io: che sia colpa nostra. Di noi adulte. Che mettiamo in mano a gente alla quale non s’è ancora finito di formare il cervello uno strumento che consente il perpetuo controllo della propria immagine, e la bombardiamo con messaggi contraddittori. La bellezza non è importante. Ognuno è bello a modo suo. Vai bene così come sei.
Sembriamo quei fidanzati stronzi che prima ti maltrattano poi ti dicono che ti amano tanto. E, se c’è una cosa che impari solo da adulta (e neanche tutte le adulte, povere noi), è che sono i fatti che contano, mica le parole. Che il fidanzato che ti ama solo a parole va mollato. Che Bella Hadid che piange in primo piano su Instagram è comunque più attraente di te, che pure sfoderi il più fotogenico dei sorrisi e il più selezionato dei filtri e la più motivazionale delle body positivity.
Ti abbiamo, cara quindicenne immaginaria ma realissima che non mi starai leggendo, venduto l’illusione che tu possa stare con una telecamera in faccia tutto il giorno senza preoccuparti dei pori dilatati, che sotto le tue foto la gente debba commentare «come sei intelligente, che eloquio interessante», perché la bellezza è tutto ciò che hai e tutto ciò che t’incitiamo a esporre, ma è anche quel che ti educhiamo a ripetere non sia importante. Siamo delle criminali.
Scusaci.