Mare dentroLa tragedia degli istituti penali minorili, tra pene più severe e strutture insufficienti

Negli ultimi anni è aumentata la tendenza a criminalizzare il disagio giovanile, invece di promuovere il reinserimento sociale dei giovani detenuti.

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Gli Istituti Penali Minorili (Ipm) appaiono spesso come bombe pronte a esplodere, ma la realtà è più complessa. Negli ultimi anni si è delineata una crescente tendenza a criminalizzare i giovani, concretizzata dal Decreto Caivano. Ma anziché favorire il reinserimento, finisce per stigmatizzare ulteriormente i ragazzi, trattandoli come bersagli di un sistema che, invece di rieducarli, li punisce. Le condizioni di reclusione, il confronto con le proprie colpe e il contesto sociale da cui provengono i giovani detenuti rendono il percorso di reinserimento nella società una sfida difficile. E, a volte, la fuga sembra l’unica via d’uscita.

«Negli Ipm entrano ragazzi che ritengono di non aver nulla da perdere e che non pensano che quel contesto li possa aiutare – spiega Franco Prina, professore di Sociologia giuridica e della devianza dell’università di Torino –. Il tentativo di fuga è un mezzo per uscire da quella situazione e per tornare a vivere nelle condizioni ritenute migliori, anche se oggettivamente non lo sono. Non è facile convincere gli adolescenti che alcune scelte sono sbagliate, soprattutto se non si gode della loro fiducia».

I detenuti negli Ipm hanno tra i quattordici e i venticinque anni, un dato non marginale. «Il gesto compiuto dagli adolescenti, pur qualificato come reato, va visto diversamente, ad esempio come una volontà di ritorno a casa. I ragazzi a volte fanno dei gesti sciocchi, che vanno interpretati. Si tratta pur sempre di adolescenti», dice a Linkiesta Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale della Città Metropolitana di Milano.

Lo scorso otto settembre sono evasi tre detenuti dall’Ipm Cesare Beccaria di Milano: due fratelli di sedici e diciassette anni, che hanno scavalcato il muro della struttura, e un altro diciassettenne, fuggito successivamente. Per uno dei fratelli si trattava del secondo tentativo di fuga. È la sesta evasione registrata al Beccaria dall’inizio dell’anno. «La fuga è l’ultimo stadio di una non accettazione della privazione della libertà», commenta Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sul carcere. «La voglia di evadere è naturale per chi è ristretto, ma non stiamo parlando di casi allarmanti. Le evasioni fanno parte della fisiologia del carcere, ma non rappresentano la quotidianità».

In Italia ci sono diciassette Ipm. Secondo i dati di Antigone, associazione che si occupa del sistema penitenziario italiano, alla fine di febbraio 2024, i ragazzi detenuti erano in tutto cinquecentotrentadue (di cui trecentododici minorenni e duecentoundici giovani adulti). Solo due mesi prima erano quattrocentonovantasei. Questo aumento è significativo rispetto ai numeri degli ultimi dieci anni, durante i quali il totale dei detenuti non aveva mai superato le cinquecento unità.

La colpa è da attribuire alla crescente criminalizzazione del disagio giovanile, legittimata anche dagli ultimi provvedimenti del Governo. «Il decreto Caivano, approvato a settembre del 2023, ha riaperto la strada a una criminalizzazione del disagio giovanile», spiega Miravalle. «Il numero dei ragazzi ristretti negli Ipm è basso rispetto al panorama europeo. Ma quello che ci preoccupa è che, se prima i numeri erano stabili o in decrescita, adesso hanno cominciato ad aumentare». Il decreto infatti ha ampliato la possibilità di ricorrere alla misura del carcere in fase cautelare per i minorenni.

A crescere sono soprattutto gli ingressi alla libertà, cioè gli arresti «per strada» che portano a misure cautelari. «Le questioni che potrebbero essere trattate con politiche sociali, come quella delle droghe, vengono invece risolte dal diritto penale – continua Miravalle . Questo avviene da alcuni anni. Il decreto Caivano ha confermato, da un punto di vista normativo, una tendenza che c’era anche prima e che, anche solo inconsciamente, un po’ influenza l’operato delle forze di polizia. In più, se a questo associamo l’incapacità di prevenzione di servizi sociali e scuole, è chiaro che quella parte di disagio che prima riusciva a essere intercettato oggi diventa invisibile».

Un altro fattore che contribuisce all’aumento degli ingressi in carcere è l’inasprimento delle misure alternative: «Spesso i ragazzi vanno in comunità. Poi, per varie ragioni, quella misura può fallire: la comunità non riesce a gestire il ragazzo, o magari la persona viola i regolamenti di comunità. Allora gli adolescenti finiscono in carcere», prosegue Miravalle. 

Il sistema di giustizia minorile italiano ha sempre considerato il carcere come lultima risposta possibile. I programmi di messa alla prova sono ancora prevalenti, ma lItalia deve affrontare la sfida di preservare questo approccio nonostante linasprimento delle normative e la carenza di strutture adeguate. Molti ragazzi che potrebbero accedere alle comunità e che hanno avuto il via libera dal giudice, si vedono negata questa opportunità perché non ci sono posti a sufficienza.

Il Beccaria di Milano
L’Ipm di Milano è il più popoloso e spesso al centro dell’attenzione mediatica per episodi di evasione e proteste.
Attualmente, l’istituto ospita una sessantina di persone. «L’ottantacinque per cento è costituito da minori stranieri non accompagnati. Sono ragazzi soli, a volte anche piccoli, intorno ai quindici-sedici anni, che arrivano principalmente per reati contro il patrimonio. Spesso non parlano bene l’italiano e non capiscono dove sono, quindi sono piuttosto intolleranti alle regole del carcere e diventano aggressivi», dice a Linkiesta Don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria e fondatore della comunità Kayros di Vimodrone. Spesso sono ragazzi che arrivano dalla strada, che hanno problemi di dipendenze, e che già hanno girato in altri Paesi europei. «Il loro obiettivo principale è quello di aiutare le famiglie e di alimentare la loro situazione economica. Questo ovviamente, a differenza dell’ondata migratoria di qualche anno fa, prospetta una situazione non facile da affrontare. Non c’è la richiesta del lavoro o di una vita regolare in Italia. C’è il bisogno di soldi, ottenuti in qualsiasi modo», racconta Burgio.

L’ecosistema della struttura milanese, in realtà, non è diverso da quello degli altri Istituti. «Il Beccaria fa parte dell’arcipelago degli Ipm. Ma ha un’aggravante: a differenza di altri istituti, per decenni non ha avuto un direttore e un comandante stabile. Stiamo lavorando per fare in modo che la nuova impostazione, che riguarda educazione e sicurezza, possa essere innestata in una realtà che per decenni è stata impostata completamente sulla sicurezza – commenta Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale della Città Metropolitana di Milano –. Il problema che attanaglia tutti gli Ipm è il fatto che non c’è stata sinergia energia tra le ultime leggi (che prevedono più possibilità di arrestare minorenni) e l’adeguatezza delle strutture rispetto alle leggi. Mi riferisco sia al numero di persone che possono essere ospitate negli Ipm, sia alla qualità, alla capienza e all’adeguatezza delle comunità per ragazzi. Gli adolescenti di oggi non sono quelli che venivano ospitati cinque-dieci anni fa».

Il Ferranti Aporti di Torino
Un altro «polo caldo», per quanto riguarda la realtà carceraria italiana, è rappresentato dalla città di Torino. 
Al Ferranti Aporti non ci sono stati episodi di evasione, ma l’atmosfera all’interno rimane tesa. Lo scorso agosto, una protesta di una cinquantina di detenuti ha portato a un incendio che ha danneggiato parti della struttura e ha coinvolto molti agenti e ragazzi. Dieci agenti sono rimasti intossicati. Dodici ragazzi sono stati portati in ospedale. 

Oggi, listituto ospita circa quaranta ragazzi, a fronte di una capacità regolamentare di quarantasei posti (anche se la protesta ne ha resi inagibili alcuni). Lo scorso agosto, però, i ragazzi hanno dovuto affrontare una situazione di sovraffollamento, che ha senza dubbio contribuito ad aumentare la tensione all’interno dellistituto.

«Prima della protesta, i detenuti erano circa sessanta–racconta Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà individuale della città di Torino –. Alcuni, dopo la protesta, sono stati trasferiti. Ma inizia di nuovo a esserci la tendenza a un leggero aumento. I minori stranieri non accompagnati costituiscono il numero più importante, ma sono in aumento anche giovani adulti e italiani, cosa che non si registrava da un po’». 

All’interno del Ferranti Aporti, molti ragazzi provengono da contesti problematici: hanno difficoltà di adattamento, fanno uso di psicofarmaci o provengono da realtà esterne di consumo di sostanze stupefacenti. «Arrivano da percorsi e da viaggi molto complicati. Alcuni hanno alle spalle esperienze di detenzione nei campi in Libia. Lo so perché me lo raccontano. Sono ragazzi che con molte probabilità non riescono a trovare un’accoglienza adeguata e quindi entrano con facilità nei circuiti delinquenziali», conclude Gallo.

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