Nuovo paradigmaLa vittoria Ue nella sentenza contro Apple e il canto del cigno della dottrina Vestager

Il prossimo Commissario per la concorrenza dovrà decidere se continuare a punire i vantaggi fiscali indebiti e gli abusi di posizione dominante, oppure adottare una strategia più flessibile, come suggerito dal rapporto Draghi, per permettere alle aziende europee di competere meglio a livello globale

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Tredici miliardi di euro. A tanto ammontano le tasse non pagate da Apple secondo la Corte di Giustizia europea, che ieri ha annullato la decisione del Tribunale dell’Unione e confermato quanto dichiarato dall’Antitrust comunitario sui ruling fiscali concessi dall’Irlanda alla società di Cupertino, che ora dovrà pagare a Dublino quanto dovuto. «Oggi è una grande vittoria per i cittadini europei e per la giustizia fiscale», ha dichiarato la danese Margrethe Vestager, vicepresidente della Commissione europea e Commissario per la concorrenza da dieci anni, ruolo che non le verrà confermato nel prossimo esecutivo comunitario. La decisione del Tribunale, che ha anche rigettato il ricorso di Google sulla sanzione di 2,42 miliardi di euro inflitta dall’Unione europea per “abuso di posizione dominante” su Google Shopping, è a suo modo storica e rappresenta una delle ultime grandi vittorie di un certo modo di interpretare la concorrenza in Europa.

Nella sentenza relativa al caso Apple l’attenzione dei giudici si è focalizzata sulle aliquote fiscali che il governo irlandese ha concesso ad Apple, che dal 1980 ha stabilito la sua sede europea a Cork. Secondo i giudici, dal 2003 al 2014 il governo di Dublino ha indebitamente avvantaggiato il colosso tech con aliquote fiscali tra lo 0,005 e l’1 per cento, molto più basse della normale aliquota del 12,5 per cento, sugli utili generati dalle attività di Apple fuori dagli Stati Uniti, ricevendo in cambio la promessa di mantenere la sede europea della multinazionale nella città irlandese, dove dà lavoro a oltre seimila persone, circa un quarto dei dipendenti assunti in tutto il continente.

Un caso finito all’attenzione dell’Antitrust europeo già nel 2014, quando aveva sottolineato la presenza di un indebito vantaggio procurato al colosso tech dall’Irlanda, e giudicato una prima volta nel 2016, con Apple costretta a pagare tredici miliardi di tasse inevase a causa degli “aiuti di stato” di Dublino non conformi alle regole comunitarie. Nel 2020 c’è stato il ribaltamento, con il Tribunale dell’Unione europea, che stava revisionando il caso, che ha annullato la decisione dell’Antitrust, dando ragione all’Irlanda e ad Apple e sostenendo come non ci fosse stato alcun trattamento vantaggioso per la società di Cupertino. Da qui nasce l’ultimo ricorso di Vestager davanti alla Corte di Giustizia europea, che poteva annullare la sentenza o rimandare il caso al Tribunale.

Come nel 2023, quando dovette decidere sul ricorso portato avanti sempre da Vestager in merito alla fusione tra la compagnia telefonica di Hong Kong Hutchison e la britannica O2 avvenuto nel 2016, anche stavolta i giudici del Lussemburgo hanno dato ragione all’ormai ex vicepresidente della Commissione. Una storia non molto diversa è quella relativa a Google, tra le società più sanzionate dall’Unione europea per abuso di posizione dominante, e il suo servizio di comparazione dei prodotti su Google Shopping. Sia i giudici del Tribunale europeo che quelli della Corte di Giustizia hanno confermato come il colosso di Mountain View abbia favorito i propri servizi su vari mercati nazionali della ricerca su Internet, svantaggiando quelli concorrenti.

I due casi rappresentano le ultime grandi vittorie di Vestager,  che tra poche settimane lascerà le cariche, ma rappresentano anche un segnale per il futuro e per chi prenderà il suo posto: la sentenza della Corte, infatti, lascia intatta la possibilità al prossimo Commissario per la concorrenza di perseguire i tax ruling nazionali, cioè i vantaggi fiscali che Paesi come la stessa Irlanda, Lussemburgo, Malta, Cipro e anche i Paesi Bassi spesso concedono alle grandi multinazionali, in particolare a quelle operanti nel settore della tecnologia e di Internet. Una pratica assolutamente scorretta ai sensi del diritto comunitario, visto che discrimina sia gli altri Paesi europei, che perdono una fetta importante del proprio gettito fiscale, che le imprese, che partono in condizioni di svantaggio rispetto alle multinazionali.

L’abuso di posizione dominante e le pratiche anticoncorrenziali rappresentano due delle accuse più frequenti che l’Unione europea imputa ai giganti del mondo tech: basti pensare che già nel 2004 Microsoft venne condannata da Bruxelles e dall’allora commissario Mario Monti a pagare mezzo miliardo di euro di multa per colpa del programma Windows Media Player, lettore musicale della casa madre avvantaggiato indebitamente rispetto ai concorrenti. Da allora le normative europee sono diventate via via più severe, con multe milionarie nei confronti di colossi come Apple, Google, Microsoft e l’universo Meta, che hanno reso i loro sistemi sempre più chiusi.

Il modo con il quale è stata intesa la concorrenza finora è però giunto a un bivio: a livello europeo, infatti, si discute molto sulla possibilità di superare tali regole, come segnala anche il rapporto Draghi. L’ex presidente del Consiglio italiano ha suggerito, per esempio, di favorire le fusioni di società europee nel settore delle telecomunicazioni, per essere allo stesso livello dei giganti statunitensi e cinesi. Bruxelles, per ora, ha sempre evitato la formazione di grandi monopoli, vigilando sul rispetto delle regole. Per questo il prossimo Commissario dovrà decidere cosa fare, se scegliere l’approccio utilizzato finora da Vestager oppure cambiare rotta.

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