Eccolo, il malinteso. Il malinteso che aveva messo radici tra noi e che sarebbe stato impossibile da sradicare, il fraintendimento che emergeva a tradimento, pure se non avremmo mai saputo definirlo, riconoscerlo, metterlo a fuoco. Nessuna conosceva davvero l’altra. Era una verità che ci precedeva. Combatterla, sarebbe stato impossibile. Essendo costrette a temere lo sguardo di chi avevamo accanto o di fronte, non eravamo libere, non eravamo libere di essere noi stesse.
Dovevamo essere ciò che eravamo sempre state. Questa era la richiesta malsana, occulta delle ore spese insieme e non corrispondeva soltanto alla paura della sonda e delle sue conseguenze. Conteneva anche un desiderio inespresso, sempre frustrato di linearità, di durata.
Dato che avevamo scarsa fiducia nell’avvenire, l’adolescenza aveva assunto le sembianze di un rifugio in cui ci tenevamo prigioniere. Avevamo imbastito tutto affinché nulla dovesse mutare mai. Se avessimo acconsentito al principio del divenire, dello scorrere del tempo, avremmo dovuto accettare che forse le amiche sarebbero state presto spazzate via, trascinate dalla marea, dalla corrente in piena degli anni, dei cicli, delle fasi, dell’età adulta.
Dimostrando di non contraddirci mai, dimostrando di non contenere contraddizioni, aderivamo a uno scenario statico, imperturbabile. Rassicurante. Tutto era immobile. Noi eravamo immobili. Interdette della possibilità di esprimere antinomie, discordanze, sfumature, sincronicità, insomma, la molteplicità dell’esistenza. Ci obbligavamo l’un l’altra alla rigidità sempiterna del sarcofago. Ecco perché insieme risultavamo querule, enfatiche, un poco robotiche. Finte. Non dovevamo alterare quell’equilibrio, non dovevamo destare sospetti.
Di ciascuna era vero soltanto ciò che era sempre stato vero: e cioè, ciò che di ciascuna avevamo visto in un primo momento. Tendevamo a convergere verso quelle sembianze, le ricalcavamo di continuo, cercavamo di combaciare con esse. E l’effetto prolungato di un tale sforzo era che finivamo a somigliare manifestamente a qualcun altro e mai a noi stesse, durante tutti gli incontri, in occasione di ogni dialogo.
Dunque, in realtà, tutte quante venivamo tacciate di non avere una stabile identità, un’identità fissa. Ciascuna di noi era sempre una cosa o il suo esatto contrario: troppo buona o troppo poco, eccessiva oppure apatica. La compresenza di fattori contrari era apertamente osteggiata. Non era tanto un’oscillazione continua del giudizio tra due estremi, ma piuttosto la totale incapacità di tradurre chi avevamo di fronte, decifrarlo, saperlo leggere. Tutto seminava dubbio.
Tentavamo implicitamente, segretamente di rispondere una volta per tutte alla domanda: «Ma tu chi sei?». Il quesito capitale, insomma. Senza renderci conto che inibivamo qualsiasi speranza di riuscirci. Ogni tanto provavamo a sospendere per poco il giudizio. Ma non resistevamo, ci affrettavamo a tornare alle nostre posizioni originarie, alle nostre teorie tagliate con l’accetta. Finivamo a essere permanentemente avvolte da un alone di peccato, da una patina di ambiguità, di pericolosa stranezza. L’altra restava un’estranea che sostiene e commette azioni di cui non capivamo quasi mai la ragione, la cui ragione ci muoveva perplessità, una confusione sovrana.
Le avevo mai sfiorate? E Anna, Adelaide, Mietta avevano mai sfiorato me? Tanto tempo passato insieme, ad averle vicine, per giungere alla conclusione che mai avrei saputo qualcosa di loro, qualcosa di non contraffatto, di autentico, non mediato dalle immagini e dalle aspettative che il gruppo aveva di noi. Ci accusavamo l’un l’altra di tradirci, di tradirci sempre, quando nessuna aveva idea di chi l’altra fosse davvero, dove celasse questo vero sé, in cosa consistesse di preciso. Ci riducevamo a sagome di gesso, a cartonati vuoti.
Tratto da “Le infelici” (Do it human editore) di Benedetta Sofia Barone, pp. 85, 16,00€