Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Etc dedicato al tema del tabù, in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Sulla pagina Wikipedia dedicata a Roland Barthes, tra i più rilevanti esponenti della nuova critica francese strutturalista, c’è un paragrafo incentrato sulla sua attività di studio delle relazioni esistenti tra miti e feticci, alla quale lo studioso si dedicò sempre più alacremente con il passare degli anni, appassionato tanto alla teoria quanto alla sua messa in pratica, nel senso più fenomenologico del termine. Nello stringato passaggio, però, non si parla mai di studio del costume e se non fosse per la citazione tra le sue opere più importanti de “Il sistema della moda” (1967), a nessuno verrebbe da pensare che un intellettuale di siffatta altezza si sia occupato nel corso della sua illustre carriera accademica di un argomento così “frivolo” (sempre a parer di molti altri intellettuali).
Eppure Barthes, superando molte stereotipie, ha sempre considerato la moda un argomento meritevole di saggi e riflessioni (tutti i suoi interventi in merito sono stati poi raccolti nel libro “Il senso della moda”, edito nel 2006 da Einaudi). Forse timorosi di vedere il proprio lavoro amputato nello stesso modo, pochi accademici dopo di lui – a eccezione di quelli che possono essere definiti “di settore”– si sono dedicati allo studio della moda come fenomeno sociale, relegandola a pettegolio utile solo a riempire le pagine dei magazine patinati (anch’essi ben lontani dai radar di un certo tipo di cultura “alta”). Ma a ben guardare, il fashion system è oggi – oltre che una gargantuesca macchina da soldi in mano a conglomerati finanziari, che in un mondo privo di preconcetti basterebbe a renderla rilevante – una delle maggiori industrie culturali del pianeta. Ne è certo nel 2024, un altro filosofo e accademico: Emanuele Coccia, che ha scritto a quattro mani con Alessandro Michele (attualmente direttore creativo di maison Valentino) “La vita delle forme. Filosofia del Reincanto” (edito da HarperCollins Italia). Il professore all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, laureato in Filosofia medievale a Firenze, è in effetti una figura atipica nel panorama accademico e strenuo sostenitore dell’importanza fondamentale della moda nella nostra società. Un anatema, a sentire Wikipedia che dimentica l’opera di Barthes, ma anche molti suoi colleghi oggi.
«In effetti dopo Barthes, mancano studi di rilievo in materia», conviene Coccia. «Un dato che, pur essendo inaccettabile, ha avuto due fattori scatenanti. Da un lato, parliamo di becero sessismo: i centri del sapere, le università, a oggi sono ancora gestiti da uomini. E storicamente se sei un maschio eterosessuale sei portato a pensare che la moda non sia rilevante, perché nel tuo armadio le scelte accettabili sono abbastanza limitate: c’è il completo formale, oppure il jeans e la t-shirt. Se il mondo della cultura si occupa meno di un argomento, la società tutta si sente così in dovere di occuparsene meno.
Eppure ciò che questi uomini non sanno, è che sono stati i primi fashion victim inconsapevoli». Ciò a cui Coccia fa riferimento è quella che storicamente è stata chiamata “la grande rinuncia maschile”, fenomeno sociologico della fine del XVIII secolo, dopo il quale gli uomini abbandonarono crinoline, tacchi e colori sgargianti, che pure andavano di gran moda nelle corti francesi, in favore di più sobri tre pezzi formali. Un cambio di passo coi tempi, ispirato dagli ideali illuministi, al centro di una mostra tenutasi nel 2022 al Victoria and Albert Museum di Londra (“Fashioning Masculinities”) realizzata in partnership con Gucci.
«Se nascevi uomo, da un certo momento in poi, con il tuo abbigliamento dovevi comunicare l’adesione al sistema produttivo, e non, giammai, un piacere estetico e fisico nel farne parte; un assunto che alcuni direttori creativi come Abloh, Gvasalia e Michele hanno iniziato a scardinare, ma solo negli ultimi anni».
L’altro grande colpevole della mancanza di una bibliografia autorevole sulla moda, secondo Coccia, è il sistema delle case di moda «che hanno ancora un rapporto adolescenziale con il proprio archivio, e tengono molto materiale secretato al pubblico, per il timore che certi vestiti o capi vengano copiati. Te l’immagini la Gagosian (la serie di gallerie d’arte contemporanea appartenenti a Larry Gagosian, ndr) che secreta l’archivio di un artista che rappresenta perché: “e se lo copiano?” – ride Coccia. Ciò che di grande i fondatori delle case di moda hanno realizzato nel corso dei secoli è patrimonio culturale dell’umanità e i conglomerati che le possiedono dovrebbero capirlo, anche perché siamo in un momento storico nel quale la moda si sta affermando come forma paradigmatica di cultura, e il mondo accademico ha il dovere di accompagnarla. Ai colossi del fashion system toccherà capire che prima ancora dell’essere fucine di prodotti, di cui si millanta una grande crisi oggi, le case di moda sono spazi di produzione culturale, spazi nei quali la gente vuole stare».
Un assunto che ribadisce nel libro scritto con Alessandro Michele, diviso in sette stanze “come sette universi che abbiamo in comune” e che è nato dalle affinità elettive tra i due, conosciutisi attraverso il compagno di Michele, Giovanni Attili, docente universitario di urbanistica a Roma. Se considerare la moda come area del pensiero, valida tanto quanto l’estetica o la semiotica, è ancora oggi un tabù difficile da sconfessare, c’è da dire anche che gli studiosi di settore sostengono ormai da tempo che il suo rapporto di reciproca influenza con la società vada molto oltre la superficie di tendenze e stagionalità.
Già nel 1997, la studiosa divenuta direttrice del Fashion Institute of Technology (FIT) di New York, Valerie Steele aveva analizzato le profonde correlazioni tra moda, sesso e potere nel libro “Fetish: fashion sex and power”, tradotto in diverse lingue e arrivato alla sua ennesima ristampa. Oggi, la stessa Steele, considerata una delle intellettuali più rilevanti del settore – tanto da essere definita dalla cronista Suzy Menkes come “Il Freud della moda”– crede che quell’assunto sia ancora valido, al netto dei cambiamenti nella società. «All’epoca mi interessava capire come dei fetish particolari influenzavano la moda o articolavano le relazioni di potere», spiega Steele. «I tacchi alti sono un fetish comune tra gli uomini, ma diverse donne li hanno e non intrattengono con loro una relazione feticista, non ne sono sessualmente eccitate.
La realtà è che non importa quanto un certo tipo di abbigliamento possa essere considerato provocatorio, o tabù: se ha una sua forza, correlata anche agli avvenimenti sociali, la moda lo adotterà e lo assorbirà, basti pensare al punk. Successe ancora negli anni Novanta, anni nei quali stavo scrivendo il libro, la liberazione sessuale e i movimenti femministi avevano influenzato profondamente la moda, tanto che quasi ogni designer si immaginava la sua cliente ideale come una variante di quel modello: una donna fiera, sexy, che rivendicava la sua sessualità. Un esempio? La collezione Miss S&M di Gianni Versace (autunno/inverno 1992-1993) ispirata al bondage, che causò diverse sopracciglia inarcate all’epoca. Sul New York Times c’erano articoli che si interrogavano se fosse “chic or cruel” apparire come una dominatrix, e lo show non fu apprezzato in maniera univoca neanche dalla comunità dei feticisti. All’epoca ne intervistai molti per il libro e mi aspettavo da loro molto più entusiasmo rispetto a quella sfilata. In realtà sostenevano che ciò che loro indossavano per esprimere la loro personalità fosse stato trasformato in una moda priva di autenticità».
Se una sfilata è capace di causare una comprensibile riprovazione quando si appropria di modelli estetici già esistenti, non le va meglio quando invece è in anticipo sui tempi. «La prima sfilata di Michele per Gucci, con quella camicia lavallière (dotata di cravatta, ndr) indossata da un uomo fu all’epoca assai discussa, anche se a ben pensarci fu rivoluzionaria, non solo in termini di stile. In passato diversi designer avevano provato a ribaltare l’opposizione binaria che esiste sia nella moda che nella teoria del genere, da Jean Paul Gaultier che metteva la gonna agli uomini, senza cambiarne il significato, a Saint Laurent, e molti altri dopo di lui, che vestivano le donne in completi maschili, obbligandole a indossare gli abiti di un uomo se volevano essere prese sul serio: in entrambi i casi si ribadivano le forme e gli assunti tipici del patriarcato. Michele ha scelto la via dell’ambiguità, del crossdressing, ciò che poi è stato chiamato gender-fluid, facendo indossare a un uomo un pezzo che conosciamo come sinonimo di abbigliamento femminile, anche se la realtà storica dice che la lavallière fu inventata dall’omonima duchessa de La Vallière, amante di Luigi XIV, che indossava su di sé la cravatta dell’amato. Il fatto che chiunque possa contenere contemporaneamente in sé il maschile e il femminile, diverse e plurime identità, è avanguardia rispetto alla teoria di genere contemporanea, che tende comunque a incasellare l’individuo. Certo, in passato molti stilisti e studiosi sono stati convinti che si entrava davvero nella storia del costume solo quando si introduceva una nuova silhouette: lo sosteneva, tra gli altri, Azzedine Alaïa, e in qualche modo aveva ragione. Oggi però più che semplice anatomia umana, la moda è divenuta anatomia del mondo, e come tale deve essere trattata».
Un percorso complesso considerato che, se la moda ha ingrandito il suo operato e i suoi significati, permane una certa idea comune che la vuole legata a una definita “temporalità”. Un’idea sconfessata da Coccia: «Nessuna disciplina artistica ha un rapporto così profondo con il passato come la moda, capace di dargli nuove possibilità. Ed è per questo che, come sosteneva già il filosofo Giorgio Agamben, la moda ha la qualità della contemporaneità, che alla fine altro non è che un glitch, una dissonanza rispetto al presente. Ogni volta che ci vestiamo, materializziamo ciò che vorremmo diventare, facciamo coincidere sogno e vita. E cosa ci può essere di più importante dell’esigenza umana di diventare contemporanei rispetto ai nostri sogni?».