Quando il 4 luglio scorso è salita sul palco per ritirare il premio Strega per il suo libro “L’età fragile”, Donatella Di Pietrantonio indossava un abito lungo alla caviglia in crepe di seta con stampa floreale, firmato Etro. Non era l’unica finalista della competizione letteraria a vestire creazioni realizzate dalle maison italiane e straniere: Chiara Valerio era in Dior, Tommaso Giartosio in Gucci, e via discorrendo.
Un’evenienza che ha scatenato delle polemiche e dei malumori tra quanti sono convinti che sia assai pericoloso mischiare nello stesso cocktail la letteratura che sale ai più alti onori di questo Paese – classificandosi legittimamente come arte – e la moda, storicamente intesa in Italia come pettegolìo, argomento triviale sul quale è ammessa solo una chiacchiera da bar, o tra signore con la testa infilata nel casco per la permanente dal parrucchiere. Che, in sostanza, utilizzare su quel palco un abito firmato delegittimi l’opera intellettuale.
Paolo Di Paolo, altro finalista in Lardini per l’occasione, ha commentato la vicenda all’Ansa: «Non si capisce perché l’unica categoria che non deve indossare abiti firmati sia quella degli scrittori. Qual è il dolo, l’errore, l’inciampo se case di moda ritengono di poter dare degli abiti al maggior premio letterario italiano? Succede ai David, agli Oscar e nessuno muove un sopracciglio. Perché solo gli scrittori dovrebbero vestirsi da soli?». In effetti, in Italia come all’estero, nessuno mette in dubbio la serietà e il talento di Cate Blanchett se si presenta a un evento in abito Giorgio Armani Privé, anzi, essere interprete di una creazione di alta moda è considerata parte integrante del suo lavoro.
Tra maître à penser di ambo gli schieramenti politici, però, serpeggia ancora in maniera subdola l’idea che gli scrittori, l’ultima falange di letterati e artisti veramente puri, debbano rifuggire in toto lo sviluppo di un proprio gusto estetico, figurarsi gli abiti concessi in prestito per eventi speciali da maison globali, ricche come Creso ma intrinsecamente povere di valori, inconsistenti, superficiali.
Si attende di sapere cosa succederà quando i portatori di tali posizioni saranno messi di fronte alla campagna pubblicitaria di Céline del 2015 con protagonista la vestale del New Journalism Joan Didion, oppure quando salterà fuori, da qualche infausta finestra del web, la foto del padre del teatro dell’assurdo, Samuel Beckett, che nel 1971 si muoveva per le strade di Santa Margherita Ligure con una borsa di Gucci: per le reazioni scandalizzate non si dovrà certo aspettare Godot.
Purtroppo il luogo comune italico che vuole la moda come argomento di desolante vuotezza spirituale è figlio di più padri, una miscela genetica esplosiva di semplice ignoranza, ignavia, ma anche di un approccio ancora assai infantile all’industria della moda, la stessa che rappresenta la seconda voce del Pil Italiano, e che lo scorso anno, secondo i dati della Camera nazionale della moda italiana (Cnmi), ha fatturato più di cento miliardi, di cui più di novanta di esportazioni. Un peso economico che basterebbe, da solo, a categorizzare questo sistema come argomento meritevole di interesse e di uno studio attento.
Moda e politica: una lunga storia d’amore (e odio)
A fine maggio, in effetti, il presidente del Cnmi, Carlo Capasa, ha incontrato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, col fine di redarre un protocollo d’intesa su temi variegati, cari alla moda italiana, dall’internazionalizzazione delle aziende al fine di facilitare i rapporti dei marchi tricolore con le istituzioni straniere allo sviluppo di misure più stringenti per evitare la contraffazione. Il ministro ha inoltre proposto l’organizzazione di eventi dedicati alla moda nelle ambasciate estere o la partecipazione in qualità di relatori alle “Giornate dell’Export”.
Nonostante l’attenzione che il governo ha attualmente sull’argomento, l’idea che si tratti, tutto sommato, di un sistema dimenticabile – che si occupa di abiti, e fa di conseguenza parte di un emisfero femmineo, triviale – è dura a morire. Un’idea paternalistica che accomuna intellettuali e organi d’informazione di tutti gli schieramenti politici, evidentemente a digiuno di storia della moda e del costume.
In questo senso si inquadra perfettamente la levata di scudi in occasione della prima intervista in qualità di segretaria del Partito democratico di Elly Schlein. Nell’aprile 2023, l’ex europarlamentare ha scelto di raccontare il suo progetto di futuro, le sue politiche sull’inclusione e sul mondo del lavoro e la sua idea di Italia non a un quotidiano nazionale, ma a Vogue Italia. Un approdo editoriale che ha fatto erompere i vati del giornalismo italiano in paradossali peana sulle «questioni di opportunità» (l’intervista è uscita sul finale di aprile, prossima alla festa dei lavoratori, e per di più su un giornale di moda) o sulla vituperata armocromia di cui Elly Schlein ha ammesso di fare uso.
“È la non-solitudine che ti dà quella speranza e quella fiducia, è il condividere un’idea che ti aiuta a trasmetterla”. Ecco Elly Schlein ha fatto alla politica quello che i Måneskin hanno fatto alla musica italiana. https://t.co/vBRivZ8usN
— Vogue Italia (@vogue_italia) April 25, 2023
Se le critiche sono necessarie a un confronto democratico dal quale si possa uscire migliorati, in questo caso ci si dimentica colpevolmente che è da diversi secoli che la moda e l’immagine vengono usate dai politici per vincere il confronto coi loro avversari o affermarsi come leader indiscussi. La regina Elisabetta I, già nel XVI secolo, era consapevole di dover sopperire al fatto di essere una donna nubile e senza figli: lo fece tramutandosi, grazie a una moda drammatica fatta di gorgiere e corsetti stringenti sopra gonne voluminose, nell’immagine vivente della “regina Vergine”, una figura che distillava autorevolezza e che si situava moralmente al di sopra dei suoi avversari, semplici esseri umani, e più vicina al divino. Un guardaroba e un’immagine adatte ad una figura che era a capo non solo dello Stato, ma anche della Chiesa (secondo i calcoli dei Royal museum di Greenwich, alla sua morte la Regina possedeva circa duemila vestiti).
In tempi più recenti, con l’arrivo della televisione, il discorso intorno all’immagine degli uomini di governo si è fatto ancora più attento: nel 1960, in occasione del primo dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza americana, l’allora senatore John Fitzgerald Kennedy decise di presentarsi con un completo scuro, consapevole che il bianco e nero delle tv di allora avrebbe fatto risaltare il suo viso, tramutandolo nel volto nuovo degli Stati Uniti, portatore di valori anagrafici ma anche morali totalmente diversi da quelli dello sfidante. Il vicepresidente in carica Richard Nixon, molto meno consapevole del potere dell’immagine, optò per un completo spiegazzato più chiaro, i cui contorni il bianco e nero faceva apparire indefiniti, trasformandolo nel fantasma stanco di un’America passata.
Il rapporto tra moda e cultura
Al di là dell’utilizzo consistente e perspicuo che la politica ha fatto dell’abbigliamento, la moda come forma di espressione del singolo è sempre stata terreno fertile per studi di artisti che venivano da altri campi: Salvador Dalì che collaborava con Elsa Schiaparelli; Sonia Delaunay che realizzava la sua collezione di vestiti astratti ispirandosi al cubismo orfico; il coreografo Merce Cunningham che chiese a Rei Kawakubo di realizzare gli abiti per la sua opera “Scenario” (1997); Wim Wenders che, affascinato dalla figura di Yohji Yamamoto, realizzò un documentario su di lui (“Appunti di viaggio su moda e città”, 1989); più di recente, Sterling Ruby che ha collaborato con il creatore Raf Simons, sia quando il belga era direttore creativo di Dior, sia in seguito, quando è divenuto lo stilista di Calvin Klein.
Al netto quindi del comprovato fascino che artisti di ogni campo hanno sempre sentito nei confronti della moda, mai percepita come una costellazione minore nell’universo ben più ampio della cultura, il suo valore intrinseco è stato però quello di innescare rivoluzioni nella vita quotidiana di ognuno di noi, e non solo di quell’un per cento che oggi può permettersi vestiti e borse firmate dalle maison.
Quando Coco Chanel, ad esempio, decise di utilizzare un tessuto come il jersey, negli anni Dieci usato per l’intimo, lo fece con una idea precisa: quella di concedere alle donne di poter dedicarsi alle attività sportive nella stessa misura degli uomini. Prima di lei, in effetti, se volevano cimentarsi in attività atletiche, di cui negli anni Dieci si era scoperto il beneficio sul corpo, le donne dovevano indossare scomode palandrane che non rendevano agevoli i movimenti. Jeanne Lanvin, madre single che considerava sua figlia Marguerite la sua musa e il centro del suo universo, fu tra le prime ad aprire all’interno della sua azienda un nido, per consentire alle sue impiegate, molte delle quali erano anche madri, di poter perseguire i loro obiettivi professionali nella certezza che ci fosse qualcuno a prendersi cura dei loro figli: erano gli anni Venti del secolo scorso, e sembra un’idea futuribile anche adesso.
In Italia, qualche anno prima, c’era stata Rosa Genoni, considerata la madre della moda di casa nostra come la conosciamo oggi. La sarta valtellinese che aveva preso la licenza elementare frequentando le scuole serali, dopo aver studiato in Francia, si rese conto delle infinite potenzialità della moda italiana, e ne rivendicò l’identità rispetto a quella prodotta e pensata dai cugini d’Oltralpe. Se la sua eredità a oggi è poco nota è perché Genoni fu fervente antifascista, amica di Anna Kuliscioff, e si rifiutò, in ultima istanza, di giurare fede al regime, preferendo dimettersi dalla Società umanitaria di Milano, scuola professionale femminile di cui era docente.
A considerare il dialogo tra la moda e le altre arti fondamentale e foriero di possibilità era invece Germana Marucelli, un’altra pasionaria che rifiutò il predominio dell’haute couture francese, e che passò alle cronache come «la sarta intellettuale». Raggiunto il riconoscimento del suo lavoro, la stilista toscana si adoperò per organizzare dentro la sua sartoria milanese un salotto culturale con degli appuntamenti settimanali (“i giovedì di Germana”). Parallelamente indisse un premio letterario, il “premio San Babila”, volto al sostegno e al riconoscimento della poesia: tra i vincitori figurano Quasimodo e Ungaretti.
Un approccio da mecenate non molto diverso da quello che oggi hanno istituzioni come la Fondazione Prada o il Silos di Armani. Un discorso a parte e non privo di criticità è quello che riguarda tutti i brand (non solo del sistema moda) che decidono di mettere mano ai loro portafogli per finanziare lavori di ristrutturazione delle opere d’arte o delle principali attrazioni turistiche del nostro Paese (ne ha parlato Sarah Gainsforth sull’Essenziale di Internazionale nel 2022).
Le responsabilità del mondo dell’informazione
Assodata la sua assoluta rilevanza culturale e storica, rimane la constatazione che la moda, oggi, è un sistema modificatosi in maniera permanente, passato da reticolato di piccole aziende a gestione familiare a gigantesco business che ha fatto le fortune di chi ne ha visto le potenzialità prima degli altri: in sintesi, dei magnati Pinault e Arnault, fondatori rispettivamente di Kering e Lvmh, i due conglomerati finanziari francesi che hanno acquisto la maggior parte delle maison di moda presenti sul mercato, instaurando un sostanziale, e pericoloso, duopolio (a marzo 2024, secondo Forbes, Arnault è l’uomo più ricco al mondo, con un patrimonio di 226,5 miliardi di dollari).
Nonostante ci sia molto da dire, dibattere e approfondire rispetto a questo stato delle cose, la moda sui quotidiani nazionali si ricama solo la sezione sulfurea dei trend stagionali proposti dalle passerelle, così come in televisione, dove l’opera necessaria di formazione e informazione sul settore è lasciata all’iniziativa di pochi visionari. Fanno scuola in questo senso le interviste “Faccia a Faccia” di Mixer, condotto da Giovanni Minoli, che riuscì a portare sul piccolo schermo personaggi sfuggenti eppure seminali come Giorgio Armani e Valentino Garavani, rispettivamente nell’83 e nell’81. Le interviste sono ancora disponibili su RaiPlay e rifulgono nel loro essere dirette, quasi crude, sicuramente prive di intellettualismi: alla portata di tutti e tutte, senza essere per questo banali.
Una maggiore attenzione a questo fenomeno di massa, dalle proporzioni gargantuesche, farebbe in realtà un favore a tutti: sia al pubblico generalista, che potrebbe così essere più consapevole rispetto al reale impatto della moda (e magari, chissà, anche appassionarsene), sia alla moda stessa, che ha disperatamente bisogno di un sistema dell’informazione che la metta di fronte alle sue dicotomie e alle sue contraddizioni: dalle opacità correlate a una legge, quella sul Made in Italy, che lascia troppo spazio alle produzioni in altri Paesi, all’emergenza della formazione della prossima generazione di artigiani.
Un compito impossibile solo per la stampa di settore, quella dei magazine patinati che attualmente vivono in gran parte degli investimenti pubblicitari delle stesse maison. Un settore che, purtroppo, ha da tempo rinunciato a esercitare il proprio diritto alla critica, per blandire creativi dagli ego ipertrofici e miliardari poco inclini a confronti alla pari. La moda appartiene imprescindibilmente al nostro retaggio culturale, ne abbiamo fatto la storia ed è una grossa voce nel nostro sistema economico: sarebbe auspicabile affrontarne le complessità come un Paese maturo. Ma se il livello del dibattito è ancora fermo al palo dello Strega, forse ci toccherà davvero aspettare Godot.