Rivoluzione necessariaLa moda si sta (finalmente) accorgendo dello sport femminile

A partire dalla Wnba, gli sport femminili stanno vivendo un vero e proprio Rinascimento. E il fashion system non ha intenzione di stare a guardare. Una svolta che potrebbe innescare anche un miglior equilibrio in termini salariali

La cestista Angel Reese durante un evento Louis Vuitton alle Olimpiadi di Parigi (LaPresse)

Ascolta la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Etc, cliccando qui Per quanto possa apparire strano, anche per un brand come Prada possono esserci delle prime volte. Ad aprile di quest’anno, ad esempio, per la prima volta nella sua storia, il brand di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli ha vestito una cestista. Indossando una camicia e una mini in satin, con un top in mesh e strass, completando il tutto con la borsa Galleria, Caitlin Clark si è presentata alla serata del draft, pronta a fare il suo ingresso nel più importante campionato di basket femminile  della nazione. 

Ma spieghiamo meglio per chi non è a suo agio con queste diciture: negli sport professionistici nordamericani come il basket, il baseball, il football e l’hockey, il draft è il sistema di scelta degli atleti da parte delle maggiori società. Un po’ come la campagna acquisti delle nostre squadre di calcio, solo che accade tutto in una serata, trasmessa alla tv. Inoltre nei draft gli atleti da selezionare non sono quelli già iridati, i Cristiano Ronaldo o i Lionel Messi per i quali si muovono bilanci di paesi interi, ma le giovani promesse, gli atleti che vengono da campionati universitari. 

Ogni società può scegliere un atleta in base a un sorteggio inversamente proporzionale ai risultati che ha ottenuto nella stagione precedente: se si è raggiunta una posizione bassa in classifica, si ha la possibilità di ottenere gli atleti più ricercati, sparigliando le carte e avendo maggiori opportunità per l’anno successivo. Per Prada, vestire Caitlin Clark è stata un’assoluta prima volta: una prima volta nel basket, una prima volta con un’esordiente, e non con un atleta già famoso prima, e per di più con una donna: se tre indizi fanno una prova, vuol dire che gli sport femminili stanno vivendo un vero e proprio Rinascimento, e la moda non ha intenzione di stare a guardare. 

Come ha spiegato la stessa stylist di Caitlin Clark – perché si può essere anche molto giovani, ma nella società dell’intrattenimento una figura del genere imprescindibile – «di solito ci vogliono cinque anni prima che una maison acconsenta a vestire un atleta». Parlando con il Wwd nel pezzo “Caitlin Clark’s Stylist on Why Her Viral WNBA Draft Prada Look Is Just the Beginning”  Adri Zgirdea ha spiegato il motivo della scelta. «Considero sempre la storia personale dei miei clienti quando lavoro su dei look che saranno fondamentali nella storia delle loro carriere. Caitlin è un fenomeno e una pioniera in molti modi diversi, quindi sapevo che il suo look doveva rappresentare una prima volta, e ho subito pensato a Prada. Avevo già lavorato col brand in passato, e sono sempre state delle esperienze meravigliose. L’etica del brand e lo stile di Caitlin sono paralleli: una tecnica ineccepibile, molta sostanza, e inoltre da Prada non avevano mai vestito nessuno, uomo o donna, per i draft: le stelle si erano allineate». 

La ventiduenne è stata poi la prima scelta degli Indiana Fever e nonostante non sia stata presente alle Olimpiadi di Parigi con il Team Usa, cosa che ha scatenato parecchie proteste in patria, il suo arrivo dai campionati universitari, dove era già molto seguita, è destinato a cambiare moltissimo le sorti dell’intero sport. Non lo diciamo noi ma Bloomberg che ha titolato il suo pezzo ‘The Caitlin Clark Effect Is Real,’ and It’s Already Changing the WNBA. E in effetti il draft della WNBA (il contraltare al femminile della NBA, e quindi la lega nazionale femminile di basket) quest’anno è stato visto da 2,4 milioni di persone, quasi il quintuplo rispetto al draft dell’anno precedente. 

In generale, però, le maison iniziano a guardare sempre più agli esordienti alla prova con i loro draft, una versione sportiva del ballo delle debuttanti: a giugno, il New York Times ha scritto un articolo sui look sfoggiati proprio in quell’occasione da 24 atleti dell’NBA, corredato di foto e spiegazioni delle scelte; Zaccharie Risacher, prima scelta degli Atlanta Hawks, 19 anni, indossava un completo seerksucker grigio di Armani; Alex Sarr, seconda scelta dei Washington Wizards, ha optato per un doppiopetto Versace con bottoni gioiello; Carlon Carrington indossava un completo Dior, e via discorrendo.

Oltre però all’occasione dei draft, ci sono altri momenti che fanno parte della liturgia sportiva, che sono divenuti succulente occasioni di marketing per i brand. Una su tutte: la tunnel walk, ossia l’entrata al palazzetto degli sportivi, da quando arrivano in macchina o con il pullman del team nel luogo del match – un palazzetto, appunto, o uno stadio – a quando entrano nei loro spogliatoi. In Italia, se pensiamo al calcio, i nostri sportivi sono spesso fotografati quando arrivano allo stadio, ma non è mai stato considerato un momento nel quale fare sfoggio di un proprio stile personale, o poter fare “personal branding” per dirlo con dei termini di marketing. 

In passato nell’NBA vigevano inoltre delle regole abbastanza severe su come ci si dovesse presentare sul luogo del match: erano prescritti solo completi formali, e si pagavano multe salate se non si osservavano le disposizioni regolamentari. Regolamenti che sono poi cambiati, per adeguarsi ai tempi ma anche per via di personaggi come Allen Iverson, cestista dei Philadelphia 76ers attivo nell’NBA fino al 2010, capitano della nazionale di basket americana che vinse il bronzo alle Olimpiadi di Atene del 2004. Poco abituato ad indossare tre pezzi, Iverson se ne infischiava delle regole e delle multe, presentandosi all’appuntamento con il tunnel walk nello stile tipico degli early aughts, pantaloni baggy, spesse catene dorate al collo, maglie da basket over. 

Allen Iverson (Wikimedia Commons)

A riprova di un’eredità stilistica importante, lo scorso gennaio GQ America gli ha dedicato la copertina, definendolo il «progetto originale al quale si ispirano le moderne star dello sport». Oggi, gli atleti sono liberi di esprimere la loro personalità in quei pochi passi che li separano dagli spogliatoi, e quel momento è divenuto di grande importanza, ma anche interesse. A maggio è nato l’account Instagram WNBA Tunnel – lanciato dalla specialista di comunicazione ed ex giocatrice di basket nelle leghe universitarie, Melissa Vaughn – con l’obiettivo di documentare i diversi outfit sfoggiati su quello speciale red carpet, dalle giocatrici più famose, Caitlin Clark ma anche Angel Reese, Cameron Brink e Kelsey Plum. Ad oggi il profilo ha 51 mila follower. 

Al netto del fatto che c’è un rinnovato interesse da parte delle maison verso i giovanissimi atleti dei principali sport nordamericani – comprensibile, visto che gli Stati Uniti sono ad oggi il primo mercato, quello più ambito, dalla moda – cosa sta succedendo nel mondo dello sport femminile, e perché è così importante? Lo abbiamo chiesto a Nausicaa Dell’Orto, atleta della nazionale italiana di football e commentatrice sportiva di Dazn, per il quale ha prodotto anche diversi documentari sul tema dello sport femminile.

«I brand si sono resi conto di questa opportunità di visibilità, considerato che queste ragazze, oltre ad essere giovani, pazzesche, bellissime, e brave fanno anche views. Hanno così deciso di sponsorizzare sia i loro vestiti sui red carpet che prima delle partite, quando si parla di tunnel look. Fino a qualche anno fa nella WNBA non era comune il processo del tunnel walk, come succedeva già per gli uomini: questo perché le donne, secondo la credenza comune, dovevano prima provare di esser brave sul campo da basket», spiega. 

Adesso le cose sono cambiate: «I campionati universitari al femminile riscuotono un maggiore interesse di quelli maschili, e la viewership del WNBA è aumentata perché queste atlete hanno delle capacità incredibili. Prendiamo ad esempio Caitlin Clark: segna da tre metri, molto lontano dal canestro, come i suoi colleghi maschi. Le sue statistiche sia nei campionati universitari che nel WNBA sono incredibili. In più grazie ai social, le atlete sono riuscite ad avere una voce di cui prima non disponevano, per raccontare non solo il loro stile ma anche le loro opinioni, facendo personal branding», continua Dell’Orto. 

E in effetti, parlando di dati, secondo il pezzo del Business of Fashion “How the WNBA Tunnel walk became a fashion marketing gold mine” la vendita dei biglietti per le partite del WNBA è cresciuta del 156 per cento rispetto alla scorsa stagione, mentre le vendite del merchandising sul sito ufficiale dell’associazione, in soli due mesi dall’inizio della stagione sono salite del 750 per cento se paragonate allo stesso periodo dell’anno precedente (i dati sono stati condivisi da un report della Lega stessa). 

Se invece si parla degli account Instagram delle atlete, e quindi del potenziale pubblico che i brand possono raggiungere, Reese ha 7 milioni di follower tra Instagram e TikTok, Clark ne ha 2,6 e Brink 1,7. Numeri che fanno gola anche agli storici brand di abbigliamento sportivo che in passato hanno corteggiato esclusivamente gli atleti: quando ad ottobre la leggenda Shaquille O’Neal è divenuto presidente del segmento basket di Reebok, con l’obiettivo di coltivare partnership con atleti e organizzatori, molti si sono chiesti quale sarebbe stata la sua mossa. 

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura in qualità di vicepresidente c’è in fondo proprio Allen Iverson, uno che al fattore “stile personale” ha sempre dato molta attenzione. La  risposta è arrivata solo qualche giorno dopo quando la società ha deciso di mettere sotto contratto non un uomo, ma Angel Reese dei Chicago Sky, che farà da testimonial del brand firmando una sua linea di abbigliamento e accessori, in uscita ad agosto, Reebok by Angel. «Volevo creare una collezione che permettesse alle donne e alle ragazze ovunque nel mondo di abbracciare la loro femminilità e potenza, di farle sentire alla moda e fiere in ogni occasione», ha commentato l’atleta. 

Per i brand, imparentarsi con queste atlete non è solo fondamentale per via dell’impatto che possono avere, o per il loro grande pubblico, ma anche perché consente loro di mettersi dalla parte giusta della barricata, quando si parla di nuovi canoni di bellezza. A sottolinearlo è proprio Dell’Orto: «Nella società attuale la donna non è più percepita come un personaggio di contorno, umile, vestita in maniera poco appariscente: la donna può essere forte, atletica, tutto quello che vuole. E queste donne ne sono un esempio: i brand vogliono ovviamente associarsi a quest’immagine per poter smontare insieme a loro certi stereotipi e quindi essere percepiti in maniera positiva». 

A latere di queste considerazioni, a livello di partnership commerciali, le atlete offrono ai brand maggiori opportunità: sempre secondo il pezzo del Bof, se gli uomini rimangono fedeli ad alcune, importanti maison e ai maggiori brand di streetwear, le donne riescono a raggiungere accordi anche con brand di make up e skincare: Glossier, ad esempio ha rinnovato e ampliato la portata della sua partnership con la lega femminile. Un esempio? Prima dei Draft, le giovani atlete erano tutte riunite in un hotel con una speciale Glam room, nella quale Glossier ha contribuito a truccare Caitlin Clark, Angel Reese e Cameron Brink tra le altre. Se però le atlete si dimostrano molto più inclini dei loro colleghi maschi a firmare accordi con brand di abbigliamento, potrebbe non essere solo perché sono delle fashion addict ma per motivi ben più banali e in fondo tristi. La differenza è purtroppo negli stipendi che percepiscono, ancora molto minori rispetto ai loro colleghi maschi. 

LaPresse

«Pochissimo. Se pensi che Caitlin Clark come giocatrice WNBA, cioè professionista, prende 70 mila dollari all’anno, che in America sono pochi anche per una persona che vive una vita modesta, ti rendi conto della differenza. Di conseguenza devono compensare con degli sponsor per avere la vita che vogliono, che è poi quella dei giocatori dell’NBA. Questo gender pay gap era inizialmente giustificato dalla lega sulla base del fatto che gli sport femminili erano meno visti: un dato che ad oggi è stato sconfessato, ci sono molti uomini e ragazzi che seguono la WNBA», dice Dell’Orto. 

E proprio il salario di Clark, 76.535 dollari l’anno, per essere precisi, ha riacceso il dibattito sulla disparità salariale tra uomini e donne. Se Clark percepisce di meno in quanto debuttante, la giocatrice ad oggi più pagata di tutta la lega femminile, Katie Young dei Las Vegas Aces, ha un contratto annuale di 252mila dollari l’anno. Numeri che sono abissalmente distanti da quelli che percepirà il debuttante d’oro dell’NBA del 2024, il 19enne francese Zaccharie Rissacher, che è stato messo sotto contratto dagli Atlanta Hawks con uno stipendio garantito di 12,6 milioni l’anno per le sue due prime stagioni. Un sistema di compensazione economica differente, figlio di accordi diversi – gli uomini percepiscono nel loro stipendio anche parte dei diritti televisivi di trasmissione delle partite, della vendita del merchandise e dei biglietti, ad esempio – che potrebbe cambiare molto presto, considerato il rinnovato interesse del pubblico, e di conseguenza dei brand. 

E sarebbe forse il momento, visto che le storie personali di queste atlete sono già materia da film: per quanto a volte ce lo si dimentichi, nonostante si sia arrivati nel 2024, le donne non sono sempre incoraggiate a perseguire una carriera sportiva, e devono affrontare non solo le difficoltà legate ad un percorso classico nell’universo dello sport, ma anche un diverso tipo di pressioni. 

Senza citare le storie arcinote di atlete come Bebe Vio e Veronica Yoko, la stessa Nausicaa Dell’Orto ha spesso ammesso di essersi scontrata con un padre violento, che non vedeva nessuna utilità nel suo impegno nello sport, e ha dovuto creare una squadra femminile dal nulla, visto che l’allora presidente dell’associazione di flag football non era interessato a sviluppare una divisione femminile (il flag football dal 2028 sarà sport olimpico). 

In Italia c’è anche Najla Aqdeir, arrivata nel nostro Paese nel 2005, anche se ha ricevuto la cittadinanza solo lo scorso anno (per i suoi meriti sportivi): è nata in Libia nel 1994 e, dopo un’iniziale approvazione del suo impegno nell’atletica, suo padre le proibì di gareggiare, organizzando per lei un matrimonio combinato dal quale è riuscì a fuggire, tornando in Italia, dove oggi è allenatrice di running. Se della loro importanza non si è accorto ancora lo sport – e certi titolisti italiani della domenica, che definiscono le donne non in quanto atlete, ma in quanto madri, amiche di, mogli di, privandole spesso del cognome – se ne accorgerà forse la moda. E sarebbe non solo una strategia azzeccata di marketing, ma anche una rivoluzione necessaria. 

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