Scheggia impazzitaLa polarizzazione è l’arma dei repubblicani per contrastare la popolarità dei democratici

Come spiega Mattia Diletti, in “Divisi“ (Treccani) il Grand Old Party ha iniziato fino dagli anni Novanta a usare tattiche di delegittimazione a mobilitare settori della società su temi divisivi come aborto, tasse e armi. Questa radicalizzazione è diventata incontrollabile, portando a una frattura sempre più profonda tra i due principali partiti

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Il tasso di disoccupazione è il più basso degli ultimi ventiquattro anni. Il tasso di inflazione è il più basso degli ultimi trent’anni. Il reddito medio cresce e abbiamo il più alto livello di acquisti immobiliari della nostra storia. Il numero di crimini commessi in America è diminuito per cinque anni consecutivi, raggiungendo il livello più basso di sempre; i cittadini che chiedono un sostegno al nostro sistema di welfare sono al minimo da ventisette anni a questa parte. La nostra leadership nel mondo non ha rivali. Signore e signori, lo stato della nostra unione è forte. (Harris, 2006)

Bill Clinton, 27 gennaio 1998: il presidente in carica parla di fronte al Congresso nel giorno dello Stato dell’Unione, ricevendo centoquattro applausi, molti dei quali uniranno repubblicani e democratici. In un passaggio di pura tattica politica e comunicativa, Clinton promette che investirà il surplus di bilancio – un trilione di dollari – nei programmi di social security, uno dei pilastri del sistema di welfare degli Stati Uniti. Il suo principale rivale di quel tempo, il repubblicano Newt Gingrich, è seduto dietro di lui per dirigere i lavori. Gingrich sa perfettamente che questa promessa, formulata da Clinton in diretta tv, sconfessa la sua proposta – usare il surplus di bilancio per tagliare le tasse. Avendo compreso la popolarità di quella mossa, decide lo stesso di alzarsi in piedi ad applaudire, seguito dai membri del Congresso del suo partito.

È un momento bipartisan di grande impatto. Ne vedremo altri durante gli anni della presidenza di George W. Bush dal 2001 al 2009, quando una larghissima maggioranza del Congresso si stringerà attorno alla bandiera e al suo presidente – gli americani lo descrivono come il momento del rally ’round the flag – per sostenere la risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001. Una luna di miele fra presidente, classe politica e società che durerà circa quattro anni: si incrinerà nel 2005, quando gli americani cominceranno a capire che le guerre in Iraq e in Afghanistan non stanno andando bene. Si chiederanno come mai un paese come gli Stati Uniti, capace di mirabilie logistiche a livello militare, non sia in grado di soccorrere i propri cittadini quando sono colpiti da disastri naturali più che annunciati (il 2005 è l’anno in cui l’uragano Katrina devasta New Orleans, uccidendo quasi millenovecento persone, circa mille in meno di quelle morte negli attentati delle Torri Gemelle).

Ma torniamo ai protagonisti dei ruggenti anni Novanta, Bill Clinton e Newt Gingrich. La polarizzazione politica di questa fase storica è agli inizi della sua vicenda quasi trentennale: molti studiosi americani concordano nel rappresentarla come una strategia dall’alto, un’arma che i repubblicani utilizzano contro un presidente popolare. Lo si spiegherà meglio in seguito, ma all’epoca si era diffusa la percezione che i democratici, per una serie di convergenze politiche, sociali e demografiche, potessero aprire un lungo ciclo di vittorie elettorali nelle elezioni presidenziali. Radicalizzare e costruire alleanze con diversi segmenti della società – mobilitati su temi quali fiscalità, morale pubblica, aborto, possesso delle armi – fu un tentativo per uscire dall’angolo e rilanciare le sorti del partito repubblicano, con elementi sia di continuità sia di rottura con la stagione dei successi reaganiani.

La storica Nicole Hemmer definisce quella generazione di leader conservatori come i Partisans, i «rivoluzionari» che hanno rimodellato la politica americana: con Gingrich, altri rivoluzionari erano Pat Buchanan, Rush Limbaugh e Laura Ingraham (Hemmer, 2022). I repubblicani inventano in quel periodo, per esempio, l’uso dell’impeachment come arma al tempo stesso tattica e mediatica, trasformandola da strumento istituzionale straordinario in pratica ordinaria: delegittimare il presidente, mettere al centro dell’agenda politica la sua condotta morale, costringerlo a difendersi, impedirgli di occupare lo spazio pubblico con i suoi temi. Il costo politico di questa tattica è basso: ci vuole una maggioranza troppo ampia per ottenere davvero l’impeachment di un presidente, tanto vale usarlo come strumento di negative campaigning nel circo Barnum della campagna elettorale permanente, sapendo perfettamente che il processo formale che porta alla sua rimozione non si chiuderà mai (specialmente in un contesto come quello degli ultimi anni, caratterizzato da partigianeria tribale e quasi parità nelle maggioranze del Senato).

Nel dicembre del 1998, infatti, la Camera dei rappresentanti avvierà il processo di impeachment contro Bill Clinton per il caso Lewinsky, accusandolo di falsa testimonianza e di interferenze nell’attività giudiziaria dei magistrati. Quella classe politica appariva spregiudicata e inusitatamente conservatrice – non solo l’aggressività come tattica comunicativa, ma anche le prime articolazioni di una cultura politica antiglobalista, di corteggiamento sistematico del risentimento bianco, di uno scetticismo sempre più radicale verso le pratiche democratiche – ma era ancora abituata ad alzarsi in piedi per uno o più applausi bipartisan. Bill Clinton, in quello stesso discorso sullo Stato dell’Unione del 1998, aveva aperto i lavori omaggiando Sonny Bono, un ex deputato repubblicano appena scomparso – ed ex marito della cantante Cher, proprio «quei» Sonny & Cher – allo scopo di corteggiare la platea repubblicana. Nessuno avrebbe immaginato di trovarsi, allora, all’inizio di un processo di polarizzazione e delegittimazione delle istituzioni democratiche che avrebbe raggiunto il suo acme negli anni Venti. Dall’applauso per Sonny & Cher all’assalto al Congresso sono trascorsi ventitré anni, il tempo di maturazione di una nuova generazione politica. Ma forse vale la pena andare a vedere ancora più indietro nel tempo, per capire da quanto lontano arrivi la strategia della polarizzazione.

Tratto da “Divisi” (Treccani) di Matteo Diletti, pp. 17, 16,00€

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