Alle nove della sera il Palalido è pieno come un uovo. I primi cronisti sono arrivati alla spicciolata, ma molti altri sono stati spediti di corsa da tutte le redazioni, perché l’evento ha assunto una portata imprevista. Una volta sul posto, i giornalisti si guardano attorno esterrefatti e non sanno spiegarsi cosa stia succedendo. In un’era pre-tecnologica è il passaparola ad aver funzionato alla grande, convogliando là dentro seimila ragazzi, animati da un’energia fuori dal normale.
La migliore spiegazione è che “Rock e Metropoli” arrivi al momento giusto: il pubblico riconosce come propria la musica che stasera si suonerà. Se ne appropria. Buona parte del merito del successo va a Gianni Sassi, un uomo dall’intuito eccezionale, capace d’annusare prima di chiunque altro le mutazioni nel mondo della comunicazione e di aver allacciato le proprie competenze con l’operatività del Centro Sociale Santa Marta, che a Milano conta più di qualcosa, e che ha organizzato l’evento.
Così adesso la platea è eccitata e partecipe: sono qui per ascoltare il prodotto dell’aria dei tempi. Il prodotto della loro cultura. Si comincia. Dopo i primi due set, al segnale di un assistente di palco, i Doses salgono sul palco, appena occhieggiando quelli in transenna e interpretando la parte dei gladiatori all’ingresso nell’arena.
La serata è un unicum: il pubblico percepisce la prossimità con quelli che suonano, quasi che i fortunati sulla ribalta siano stati sorteggiati a caso. Goliardia e casino si mescolano, tutto è possibile e la musica là sopra è lo specchio di quanto succede là sotto. E anche più in alto, nelle gradinate che incombono sul palco, come fa segno Franco a Silvestro con una smorfia di preoccupazione, indicando centinaia di ragazzi assiepati sugli spalti alle loro spalle, con evidenti intenzioni bellicose: avete presente gli studenti che tirano le uova ai passanti, dal primo piano di un liceo occupato?
Una situazione del genere. Ma Silvestro ormai è in assetto kamikaze, alza le spalle, infila la chitarra al collo, e sussurra banzai all’orecchio di Franco. Leva lo standby all’amplificatore, da tre pennate di chitarra, non dice nemmeno una parola al microfono, fa un primo segno ad Alberto e poi un altro ancora, più stizzito, perché quel poveretto s’attarda a sistemare il charleston. Si parte. Stasera niente dolce stil novo, niente abbellimenti di quelli che piacciono a Rico, niente cerimonie.
I Doses mettono in fila sei pezzi che sono altrettanti blocchi di ghiaccio, sputati come catarro, picchiati sugli strumenti, alzando il livello dello scontro. Suonare qui, è come galleggiare nell’aria: non sentono gli sguardi e le grida, non sentono applausi e fischi, a malapena sentono sé stessi. È un’irruzione nell’iperspazio del rock da arena, quello suonato da coloro di cui per anni hanno letto le gesta sui giornali.
Ma ora capiscono cosa si provi in questa situazione: a pensare di starci tutte le sere vengono i brividi… Ma Silvestro ha tutto chiaro: il lavoro che ha fatto, la lunga preparazione, doveva condurre qui, di fronte a migliaia di ragazzi che ti guardano e ti giudicano, sono come te, capiscono ciò che fai e possono anche odiarlo.
Una volta che ci sei passato, non te lo dimentichi più. Peraltro, se c’è una cosa su cui gli organizzatori di questo concerto non hanno risparmiato, è l’impianto audio: è potente, straripante, capace di stordire la sala. Una buona scelta, perché consegna a ogni band, nella sua mezz’ora di splendore, lo strumento per elevarsi al di sopra delle proprie timidezze.
Silvestro lo capisce con stupore non appena tocca la chitarra e un boato s’espande nell’antro infernale. Il resto? Disciplina e delirio, un’apnea da cui i quattro riemergono sull’ultima pennata elettrica, sull’ultima piattata, schizzando in alto con un salto collettivo, verso le stelle della notte, prima di ripiombare giù, col culo per terra.
È finita. Ci sono applausi, fischi e urla disumane, perché il pubblico naviga su una rotta tutta sua, le band stasera contano il giusto, sono relative, rappresentano solo una germinazione delle seimila anime intenzionate a rendere memorabile il sabba. Silvestro e soci strappano gli spinotti dagli amplificatori, in una specie di delirio cinetico rotolano giù per la scaletta, infilano un corridoio, fanno venti metri di corsa.
Infine si fermano spalmati su una parete, si guardano stravolti, affranti, col fiatone dei centometristi che hanno tagliato il traguardo. Emozioni così non tornano. Mezz’ora di musica suonata selvaggiamente da una scombinata sorteria, nel mezzo di un raduno progettato da intellettuali adulti per valutare la portata di un brulicante fenomeno giovanile.
I Doses e gli altri gruppi sono gli ingredienti di una ricetta in via di sperimentazione per finalità culturali, ma in fondo anche commerciali. Per loro però è stata l’apoteosi di un’idea, il traguardo di una marcia verso un miraggio.
In questa notte milanese tutto si ricompone e assume senso, sebbene non garantisca alcun futuro ai protagonisti. Che adesso, tremanti mentre accendono le loro sigarette, hanno un sentore di realtà. Come per i dispersi tra le dune, c’è una notte in cui la percezione dell’oasi può smettere d’essere un inganno.