Allarmi inascoltati La peste suina africana avanza nel silenzio generale

Il governo sta contenendo il virus puntando soprattutto sulla caccia, ma è una strategia (per così dire) controproducente. Il rischio è quello di dover sopprimere una grande quantità di animali a causa di una gestione poco tempestiva dell’epidemia

LaPresse

A fine agosto c’è stato un rapido incremento dei casi di peste suina africana (Psa), malattia virale dei suini con altissimi tassi di mortalità i cui primi casi erano stati registrati in Liguria a inizio 2022. Attualmente in Italia la situazione è particolarmente critica, con quasi millesettecento positività accertate. Questi gli ultimi dati dell’8 settembre divulgati dall’Istituto zooprofilattico sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, che monitora costantemente i casi e la diffusione del patogeno. 

Gli scenari più critici sono quelli di Lombardia, Piemonte e Liguria, ma tante altre Regioni si stanno preparando a una possibile espansione del contagio. Tra queste c’è il Veneto, che ha emanato un’ordinanza regionale in cui individua alcune misure urgenti da adottare per evitare pesanti conseguenze sulle imprese del settore.

La Psa si diffonde molto rapidamente, tanto che ogni giorno vengono registrati nuovi focolai soprattutto negli allevamenti intensivi che ospitano una quantità molto elevata di suini. Da fine agosto sono stati individuati due focolai in allevamenti in provincia di Novara, a Castellazzo Novarese e a San Pietro Mosezzo. I casi accertati in Piemonte sono più di seicentosessanta, mentre il numero dei Comuni in cui è stata osservata almeno una positività di Psa è pari a centosessantadue. Come già emerso in passato, in realtà è molto difficile individuare il numero preciso dei casi, poiché i dati vengono aggregati per focolai e la prassi solitamente prevede la soppressione anche di suini sani per evitare ulteriori contagi.

Nonostante l’allarme lanciato dall’Unione europea sulla gestione italiana dell’emergenza, il governo Meloni non ha ancora divulgato le future strategie per contenere l’epidemia. Nel nostro Paese, per dire, non c’è ancora traccia di un sistema di monitoraggio della situazione (di cui dovrebbe occuparsi il ministero della Salute). La pagina dedicata ai dati epistemologici sul sito ministeriale è ferma al 2 agosto, presentando solo una linea evolutiva dell’epidemia a partire dal 2022 e delle misure attuate dal governo. 

La data coincide con le dimissioni del Commissario straordinario Vincenzo Caputo, incaricato di gestire l’emergenza. Da poche settimane è stato sostituito da Giovanni Filippini, il direttore generale per la Sanità animale del ministero della Salute, nominato a fine aprile come sub-commissario straordinario per l’arresto della trasmissione della Psa.

Il rischio principale è quello di dover sopprimere una grande quantità di suini proprio a causa della mancanza di una procedura più adeguata e misure atte a gestire la crisi. Ciò che interessa maggiormente, e che sta iniziando a preoccupare gli imprenditori, è però l’export made in Italy.

A preoccupare gli allevatori, invece, sono anche le conseguenze dell’abbattimento in massa dei maiali. Si consideri che i capi di bestiame abbattuti in totale sono centodiciassettemila dal 2022. Questo comporta un inevitabile calo dei reflui zootecnici che preoccupa in particolar modo le realtà aziendali che puntano alla decarbonizzazione attraverso la produzione di biogas che viene trasformato in biometano. 

Di conseguenza, le attività produttive che utilizzano i rifiuti come carburante subiranno danni considerevoli. Oltre all’impossibilità di macellare i suini abbattuti, non si potranno quindi servire dei rifiuti per produrre energia elettrica tramite la combustione del biogas generato dai processi di fermentazione anaerobica di biomasse. 

Il virus, com’è noto, può essere letale per suini e cinghiali selvatici, e al momento non esistono cure certe. Sconfiggere la malattia è per questo molto difficile, visto che la Psa è così resistente da mantenere la propria infettività in ambiente esterno per circa dieci giorni e nelle carni per diversi mesi. 

Per contenere il contagio servono interventi specifici, da attuare con grande tempestività. I primi casi di Psa erano stati riscontrati nei cinghiali selvatici. E prima di attuare misure contenitive, il governo ha deciso di impiegare centosettantasette militari destinati alla caccia al cinghiale. Questo, però, non solo non ha risolto la situazione, ma ha anche aggravato il problema. I cinghiali non sono animali migratori, ma – spinti dallo spirito di sopravvivenza a causa dell’intensificazione della caccia – si sono spinti altrove aumentando le possibilità di contagio.

«Il governo ha scelto di contenere il virus puntando essenzialmente sulla caccia al cinghiale, con l’obiettivo di dimezzare la densità di popolazione, sebbene in altri Paesi europei questa strategia si fosse già rivelata fallimentare», dice Simona Savini della campagna Agricoltura di Greenpeace. 

Questa situazione era evitabile. La peste suina africana è una malattia nota e studiata. Il problema andava affrontato diversamente e tempestivamente a partire da gennaio 2022, circoscrivendo e recintando le aree di contagio. In particolar modo andavano coinvolti sin da subito gli allevatori per adottare le misure di sicurezza. Misure che, una volta emanate, si dubita siano state applicate in modo rigoroso considerando le condizioni documentate degli allevamenti.

Un recente report della Commissione europea ha poi confermato che la strategia complessiva di controllo è stata molto carente: Bruxelles chiede a Roma una gestione dell’epidemia basata sul contenimento geografico e sul monitoraggio, piuttosto che sulla caccia. 

A settembre 2023 si parlava di testare il vaccino su trecento cinghiali in una foresta ungherese, ma i risultati non sono ancora stati pubblicati. Al momento sappiamo solo che il picco della fase critica è ancora lontano e che il virus è appena arrivato negli allevamenti dei suini. Gli ultimi focolai dimostrano che il virus sta circolando rapidamente anche in aree non contigue. Per contrastare del tutto l’epidemia, secondo il ministero della Salute, servono quattro o cinque anni. 

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