Lungimiranza cercasiPuntare sulla prevenzione per evitare l’extrema ratio dell’abbattimento dei suini

Da una parte, gli allevamenti intensivi non rispettano le misure di sicurezza necessarie. Dall’altra, si nota anche una grave carenza di controlli. In attesa di un vaccino efficace, la soluzione si chiama riconversione industriale, che porterebbe innovazione e diversificazione

Claudio Furlan/LaPresse

Nelle ultime settimane la Peste suina africana (Psa), malattia virale che colpisce suini e cinghiali selvatici, sta tornando a preoccupare molti Paesi europei, tra cui l’Italia. In Lombardia, in cui l’epidemia si è diffusa rapidamente negli allevamenti intensivi, finora sono stati abbattuti quasi trentaquattromila maiali, nonostante si sostenga di aver attuato già da tempo le giuste misure preventive. Molte sono state le perplessità sull’abbattimento dei suini e ci si è chiesti se sia necessario e se ci sono modi per evitarlo.

Particolare risonanza ha avuto il caso della morte di dieci suini non destinati all’alimentazione umana del rifugio dell’associazione Progetto Cuori Liberi di Sairano a Zinasco, dove la Polizia ha fatto irruzione il 20 settembre. I veterinari dell’Ats ne avevano infatti ordinato l’abbattimento, come stabilito dalle attuali regole. 

Gli attivisti sostengono che l’abbattimento sia stato dettato da soli motivi commerciali ed economici poiché il timore era diffondere l’infezione da lì agli allevamenti. Il rischio, secondo chi lavora nel rifugio, era molto basso poiché venivano utilizzate tutte le misure di sicurezza necessarie e il loro piano d’azione prevedeva di curare i sintomi degli animali infetti finché possibile, per poi successivamente valutare l’eutanasia «come per qualsiasi essere umano», hanno dichiarato. 

La Psa ha un elevato tasso di mortalità in suini e cinghiali selvatici infetti e al momento non esistono vaccini e cure, spiega l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, motivo per cui sconfiggere la malattia può necessitare di diversi anni. Inoltre il virus è estremamente resistente e mantiene la propria infettività in ambiente esterno per circa dieci giorni e nelle carni per diversi mesi. 

Mentre nei suini provoca febbre, aborti, emorragie e morte improvvisa, per gli esseri umani è innocuo. Il ministero della Salute ha spiegato che «l’uomo può però essere veicolo di trasmissione del virus attraverso la contaminazione di veicoli, indumenti, attrezzature, cibo di origine o contenente carne suina, anche stagionata».  

Finora l’emergenza è stata fronteggiata con misure di sicurezza che prevedevano prima la definizione di zone di restrizione e alla fine lo stamping out, cioè l’abbattimento di tutti i capi presenti nell’allevamento. Infatti si parla di allevamento infetto e non del singolo animale, proprio perché la velocità e le modalità di trasmissione non garantiscono l’immunità degli animali sani, perciò la presenza di un solo suino infetto decreta la morte certa di tutti gli altri. L’abbattimento sembra quindi inevitabile affinché il virus venga annientato.

Si sostiene che la diffusione globale del virus sia stata causata in gran parte dall’alimentazione degli animali domestici con prodotti a base di carne di maiale contaminati approdati in ciascuna regione attraverso porti aerei e marittimi internazionali. Una volta insediata negli allevamenti di suini domestici, suini infetti e prodotti a base di carne suina sono diventati la principale fonte di infezione. Un’altra ipotesi vede come mezzo di trasmissione i rifiuti contaminati da Psa, ritenuti particolarmente efficaci per la diffusione del virus su lunghe distanze. 

Gli allevatori, quindi, avrebbero dovuto adottare specifiche misure di sicurezza per evitare l’introduzione della malattia negli allevamenti, tra cui evitare il contatto diretto tra i suini allevati e cinghiali selvatici, evitare di somministrare carni o prodotti a base di carne di animali infetti, cambiare calzature e vestiti prima di entrare in contatto con gli animali allevati. 

I fattori di rischio per il mantenimento e la diffusione della Psa sono molto vasti e per questo è difficile trovare una soluzione. Tra questi ci sono i sistemi tradizionali di allevamento all’aperto, che rendono più difficile il controllo dei contatti con cinghiali selvatici, la mancanza di biosicurezza nei sistemi di allevamento semi-intensivo e intensivo, che aumentano le possibilità di trasmissione del virus, e la mancanza di organizzazione sia nella produzione che nella commercializzazione dei suini, che si traduce in una mancanza di incentivi per gli investimenti nell’allevamento di suini e in una gestione inefficace della Psa. 

È difficile credere che gli allevamenti intensivi si siano impegnati a rispettare le misure di sicurezza necessarie, soprattutto conoscendo le condizioni della maggior parte di queste strutture. Le misure di biosicurezza, infatti, non sembrano essere state rispettate e non ci sono certezze sulla presenza di adeguati controlli, soprattutto in Lombardia, dove si trova più della metà dei maiali allevati in Italia. Nel pavese, ad esempio, i campi sono continuamente cosparsi di liquami provenienti dall’industria suinicola e la movimentazione di animali macellati o destinati al macello è quotidiana. Il motivo di questa inadempienza è che in un allevamento intensivo non c’è lo spazio materiale per la conservazione dei liquami.

Le condizioni insostenibili degli allevamenti a Pavia sono già state denunciate in passato. L’organizzazione Essere Animali, ad esempio, ha svolto numerose inchieste sul tema. Oltre a provocare danni ambientali, il degrado in cui versano questi luoghi offre maggiori opportunità a virus e batteri di proliferare e mutare, innescando e diffondendo le zoonosi. I suini negli allevamenti intensivi, infatti, possono essere più suscettibili alle malattie poiché il loro sistema immunitario può essere compromesso a causa dello stress derivante dall’affollamento e dal confinamento, dalla mancanza di luce naturale, dai tassi di crescita rapidi, dalle dimensioni delle cucciolate e dall’essere costretti a giacere nelle proprie feci.

Queste condizioni non sono limitate a uno o due allevamenti, come testimonia questo report risalente al 31 maggio 2023. È necessario, quindi, stilare un protocollo per la gestione dei reflui zootecnici e dei liquami, fornire altre indicazioni chiare per la gestione in sicurezza degli allevamenti e aumentare i controlli negli allevamenti.

Esiste un vaccino?
Come già accennato, al momento non esistono cure per la Peste suina africana, mentre i vaccini sono stati testati ma molte sono le difficoltà. Sembra, però, che esista un vaccino creato dai ricercatori dell’Unione europea, che intendono testare in una foresta ungherese con l’obiettivo di immunizzare circa trecento cinghiali.  

Attualmente il problema maggiore in Europa è quello dei cinghiali infetti, poiché l’eradicazione di una malattia che si è insediata in una popolazione selvatica è estremamente complessa e dipende da una profonda comprensione dell’ecologia della malattia all’interno di uno specifico contesto epidemiologico. Motivo per cui si ipotizza di testare il vaccino proprio sui cinghiali così da ridurre la malattia e eliminare la necessità di vaccinare i maiali domestici. 

Le sperimentazioni sui vaccini condotte a partire dagli anni Sessanta non avevano finora portato risultati positivi, al contrario avevano aumentato i danni sugli animali infettati. Il motivo risiede nella rapidità con cui il virus muta nel momento in cui si replica negli animali. Per anni la ricerca di un vaccino si è fermata poiché i rischi erano troppi per poter investire su di esso. Nell’ultimo decennio, però, sembra che i progressi nel campo della genetica abbiano fornito informazioni maggiori sul virus al fine di modificarne il genoma. Se la ricerca andrà a buon fine, si ipotizza la disponibilità di un vaccino intorno alla fine del 2024 o nel 2025. 

Come combattere il virus
La Psa arriva ai cinghiali tramite le persone e tramite i rifiuti di origine suina, come prosciutto o salsicce, scartati dalle persone e poi mangiati dai cinghiali. In tal senso sarebbe utile una maggiore gestione dei rifiuti urbani, rendendo meno frequente il rinvenimento di cibo da parte dei cinghiali e quindi il contagio. 

Invece, chiunque si aggiri nelle campagne o nei boschi, deve segnalare eventuali rinvenimenti di cinghiali morti alle autorità competenti, ovvero all’Ats oppure contattare i servizi Veterinari dell’Azienda unità sanitaria locale, memorizzando anche la posizione del ritrovamento e scattando una fotografia. In questo modo si potrà provvedere al conferimento delle carcasse ad una delle Sedi territoriali dell’Istituto Zooprofilattico per le analisi del caso. 

Nel caso di escursioni nei boschi bisogna cambiare gli stivali una volta entrati in macchina, riporli in un sacchetto per poi disinfettarli una volta tornati a casa. Bisogna evitare di abbandonare nell’ambiente avanzi o rifiuti alimentari, soprattutto se contenenti carni di suino, come i salumi, che possono essere veicolo di infezione per gli altri animali. Inoltre, tutti i cinghiali abbattuti per motivi di caccia e/o contenimento della popolazione dovrebbero essere sottoposti agli adeguati campionamenti. 

Infine, uno dei cambiamenti su larga scala a cui ambire per ridurre i rischi di zoonosi è la riconversione industriale, ossia un processo di trasformazione delle strutture industriali e delle infrastrutture, come gli allevamenti intensivi, che accompagna cambiamenti strutturali del sistema economico. Questo processo consentirebbe alle imprese di inserirsi nei settori di produzione a domanda più elevata, introducendo innovazioni e diversificando i metodi già esistenti. Il fine è produrre in modo differente rispetto al passato, apportando modifiche che possano migliorare non solo le condizioni degli animali all’interno dell’allevamento ma anche il prodotto stesso e la sua qualità. 

Ad oggi sappiamo che la costante diffusione di virus dagli ospiti naturali all’uomo e ad altri animali è in gran parte dovuta alle attività umane, comprese le moderne pratiche agricole e l’urbanizzazione. Pertanto, il modo più efficace per prevenire le zoonosi virali è tentare di mantenere le barriere tra i serbatoi naturali e la società umana, tenendo conto del concetto di One Health, che riconosce la salute umana come strettamente connessa alla salute degli animali e allo stato ambientale nel quale tutti viviamo, cosciente del fatto che nessuno può affrontare da solo le problematiche del mondo globalizzato in cui viviamo.

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