La discussione parlamentare sul Piano strutturale di bilancio di medio termine – il principale documento di programmazione economica nell’ambito del nuovo Patto di stabilità europeo – è ieri avvenuta in un clima surreale, segnato dalle dichiarazioni del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che poche ore prima, presso le Commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato, aveva ammesso che la base su cui poggia il castello di carta macroeconomico del piano pluriennale – un tasso di crescita dell’un per cento nel 2024 – «sarà difficile da raggiungere».
Ciò significa che il Parlamento ha approvato un documento che il Governo dovrà rinegoziare con Bruxelles sulla base di numeri reali o perlomeno realistici e che la correzione del saldo strutturale dello 0,5 per cento all’anno – prevista per i Paesi sottoposti a procedura per deficit eccessivo – e il contenimento della spesa netta, in base gli impegni programmatici assunti e non più revocabili, dovrà subire aggiustamenti ulteriori sia sul lato delle entrate che delle uscite.
Poco male, si dirà, perché di questi aggiustamenti, che pure il Piano promette a partire dalla prossima manovra di bilancio, non c’è traccia se non nelle declamazioni di Giancarlo Giorgetti sul pratone di Pontida – una riedizione della Robin Hood Tax, travestita da contributo volontario di quanti, così ha detto il titolare di Via Nazionale, «possono fare sacrifici»– e nella richiesta, finora inevasa, ai ministri di tagliare le spese dei propri ministeri.
Molto male, invece, si dovrebbe dire, se tutto quello che c’è sul tavolo è un negoziato da parcheggiatori abusivi, condotto un po’ come elemosina, un po’ come estorsione verso le imprese bancarie, assicurative e dell’energia, intonando il ritornello del populismo economico d’ogni tempo e colore sull’andare a prendere i soldi dove i soldi, perbacco, ci sono e non nelle tasche bucate della povera gente.
Nel suo intervento al Senato, Mario Monti ha irriso giustamente Matteo Salvini sui presumibili travagli che devono attraversare la coscienza di chi ha comprato i voti promettendo di abolire la legge Fornero, e ora è costretto a rimangiarsi ogni promessa, firmando un documento programmatico che certifica come l’Italia stia ancora finanziariamente in piedi proprio grazie ai risparmi procurati da quella riforma.
E chissà, aggiungerei, che deve pensare il ministro Giorgetti, che è diventato vicesegretario della Lega quando sulla sede di Via Bellerio c’era scritto “Basta euro” e la Lega organizzava spedizioni squadristiche sotto casa dell’ex ministra, poi è stato il Gianni Letta del Governo Conte I e dell’assalto al forni di Bruxelles, e adesso deve recitare la parte dell’occhiuto custode di forzieri che dovevano essere scoperchiati a beneficio del popolo e si scoprono desolatamente vuoti.
Si può salutare questa capitolazione della maggioranza al principio di realtà con sarcastica soddisfazione, ma non con fiducia e speranza, in un capovolgimento delle regole del discorso politico populista che, quando è all’opposizione, promette di dare tutto a tutti, e arrivato al governo promette, più modestamente, di non togliere niente a nessuno. Ma rimane, in un caso e nell’altro, senza verità e quindi senza responsabilità, che è l’unica forma non moralistica di onestà che andrebbe davvero richiesta alla politica.
Anche se le chiacchiere sulle miracolose dazioni (flat tax, pensioni, famiglie numerose, accise) ormai stanno a zero, anzi sotto zero, perché per non cambiare niente – il populismo è una forma paranoica di immobilismo – occorrerà pure rosicchiare qualcosa, le chiacchiere proseguiranno nell’inganno a prendere, e non a dare.
Infatti con i classici rimescolamenti di micro-benefici (ad esempio: bonus tredicesime) e micro-esazioni (ad esempio: allineamento delle accise tra benzina e diesel) si proverà a suscitare l’impressione di – espressione di rara volgarità, da re lazzarone – «mettere soldi nelle tasche degli italiani», continuando a perseguire una politica fiscale esosa e, in parte rilevante, necessitata, come emerge proprio nel quadro finanziario a legislazione vigente inviato a Bruxelles, dove la pressione fiscale per il prossimo triennio si attesta a livelli pure leggermente superiori a quelli del periodo precedente (vedi pag. 184 del Piano Strutturale di Bilancio).
In tutto questo non c’è neppure la speranza di un’alternativa alle viste, essendo il campo largo, per l’essenziale, la versione sfigata, centro-socialista e apulo-venezuelana del populismo vincente.