Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022, il governo russo ha approvato leggi via via più repressive per limitare la libertà di espressione. Uno degli obiettivi principali è impedire la circolazione di informazioni non approvate dal Cremlino su quella che il Roskomnadzor, l’agenzia federale che regola le telecomunicazioni, impone di chiamare ’operazione militare speciale’ in Ucraina.
Nuove leggi approvate lo scorso marzo prevedono la confisca dei beni immobiliari alle persone accusate di diffondere ’fake news’, ovvero informazioni diverse da quelle della propaganda governativa, e il divieto alle compagnie private di acquistare spazi pubblicitari su siti, social media e piattaforme digitali che il governo russo classifica come ’agenti stranieri’. Quasi 800 individui o associazioni sono oggi considerati ’agenti stranieri’ in Russia: la metà circa sono giornalisti.
Tra le norme più recenti introdotte dalla Russia per controllare la sfera pubblica, alcune hanno un aspetto propriamente orwelliano. Le leggi russe, infatti, si applicano anche retroattivamente. Non puniscono soltanto gli articoli pubblicati dopo l’approvazione della norma, ma sanzionano anche contenuti già pubblicati dove compaiano i termini sbagliati, come «guerra» al posto di «operazione militare speciale». A media, siti e piattaforme, inclusi Wikipedia e Google, si prescrive quindi di adeguare il passato alla propaganda odierna: esattamente il lavoro svolto dal protagonista Winston Smith, dipendente del ministero della Verità, nel 1984 di Orwell.
La storia della (poca) stampa libera indipendente che in questi anni è riuscita, pur tra i compromessi con il potere, a raccontare dall’interno la Russia post-sovietica rischia quindi di scomparire. Per scongiurare questo scenario e salvare la memoria della Russia democratica, liberale ed europea, alcuni intellettuali russi hanno lanciato il Russian Independent Media Archive (Rima), un progetto curato dal Centro Gagarin al Bard College e da PEN America.
Tra i promotori, la scrittrice Masha Gessen, editorialista del New York Times e del New Yorker, già autrice di vari saggi, tra cui Il futuro è storia (Sellerio 2017), L’uomo senza volto. L’improbabile ascesa di Vladimir Putin (Sellerio 2022) e Surviving Autocracy (non ancora tradotto in italiano). Lo scorso luglio è stata condannati in contumacia a otto anni di carcere da un tribunale russo per aver parlato delle atrocità commesse dall’esercito russo durante l’occupazione della cittadina ucraina di Bucha.
Rima è nato nel 2023, ma solo quest’anno è entrato a pieno regime e attratto le attenzioni della stampa internazionale. Al momento questo archivio digitale contiene gli articoli pubblicati da novantotto media russi dal 2000, anno dell’arrivo al potere di Vladimir Putin, a oggi. «In Unione sovietica», ha ricordato Gessen, «si diceva: non solo il futuro, ma anche il passato è imprevedibile». Al crollo dell’Urss, le persone avevano esigenza di sapere cos’era successo, ma incontrarono molte difficoltà. Rima mira a evitare che questo accada di nuovo.
Ai giornalisti russi, ricordano i promotori, viene spesso chiesto: «A cosa serve il vostro lavoro? Avete raccolto montagne di informazioni, investigato crimini di ogni tipo, pubblicato tutte le prove e nulla è cambiato». La risposta più comune tra i giornalisti russi racchiude l’essenza del progetto Rima: «Almeno ci sarà una traccia».
Nelle parole di Gessen, Rima ambisce soprattutto a preservare la memoria di persone, temi o eventi censurati dall’attuale regime, come l’opposizione democratica o i diritti delle persone Lgbtqi+. Questo materiale d’archivio sarà prezioso quando ci saranno le condizioni per ricostruire una Russia libera e democratica, un momento dove poter sapere cosa sia effettivamente accaduto sotto il regime autocratico di Putin sarà fondamentale.
Dopo esser riuscite a far tacere i giornali interni al paese, portando più di trecento media e giornali a sospendere le pubblicazioni negli ultimi due anni, le autorità russe stanno ora puntando i media in esilio, una voce flebile ma battagliera. Oltre a esser stati condannati in contumacia, molti delle centinaia di giornalisti russi in esilio in paesi come Germania, Lettonia e Georgia sono costantemente spiati dalle agenzie di sicurezza russe, per esempio tramite il software Pegasus, e almeno due di loro sono stati avvelenati.
Tra i novantatré giornali russi in esilio censiti dal JX Fund i piú noti sono Meduza, iStories, The Moscow Times, TV Rain e la storica Novaya Gazeta, testata del Premio Nobel per la pace Dmitrij Muratov e di Anna Politkovskaya.
Secondo stime recenti, questi media attraggono a oggi tra i 6.7 e i 9.6 milioni di utenti unici, di cui tra i 5.4 e i 7.8 milioni si connettono dalla Russia. In totale, quindi, nonostante le limitazioni e i blocchi sempre più sofisticati introdotti dalle autorità, si stima che quasi un decimo della popolazione adulta residente nel paese riesca ad accedere a queste fonti indipendenti.