Una storia fasciata da uno sguardo adolescenziale tenero e pastoso, quella che Sandro Veronesi narra nel suo nuovo romanzo: “Settembre nero” (La nave di Teseo). La storia di un ragazzo di dodici anni, Gigio Bellandi, durante un’estate in Versilia nel 1972: gli ultimi mesi di spensieratezza prima che tutto cambi. Affacciarsi alla vita vuol dire, per Gigio, allontanarsi a piccoli passi dalla madre e dal padre – “a quel tempo erano i custodi della mia serenità, e questo significa che erano dei bravi genitori”. Andare incontro alle proprie passioni, come lo sport, la musica, i fumetti e i libri. E poi chiaramente: l’amore.
E tuttavia, non è tanto cosa Veronesi narra, il tempo che si dischiude per la prima volta carico, non solo di desiderio, ma anche di paura e negli accidenti della vita d’angoscia – dunque, un romanzo di formazione. Ma è piuttosto come Veronesi costruisce il suo racconto, a partire dal punto di vista attraverso cui gli dà voce. Lo sforzo autoriale risiede qui, ed è ben chiaro, ed è perfettamente riuscito: abitare il confine del passato senza il senno di poi, senza la razionalità di chi è adulto, senza applicare all’epoca la sensibilità dell’oggi, ma riesumando insieme al ricordo di quanto è accaduto anche lo sguardo tramite cui quel ricordo si è reso indelebile.
Gigio è segretamente innamorato della figlia della signora Raimondi, etiope dalla carnagione caffè che suscita nei frequentatori dello stabilimento versiliano un’attrazione controversa, un po’ come accade alla madre di Gigio, irlandese dalla chioma vermiglio, anche lei esotica per quella platea abbastanza conforme – persone di colore o con i capelli rossi, ai tempi, ce n’erano pochissime –, e anche lei rimasta in Italia dopo aver trovato l’amore.
“Sto cercando di usare similitudini che siano compatibili con la mia esperienza di allora, e per questo tengo fuori tutto ciò che di quegli sguardi direi oggi, perché è ovvio che esprimevano anche, anzi direi soprattutto, desiderio sessuale da parte dei maschi, gelosia da parte delle femmine e da parte più o meno di tutti, consapevole o inconsapevole che fosse, razzismo – la qual cosa segnava una differenza decisiva con quelli riservati a mia madre.”
Non c’è distanza dal passato, così che gli anni Settanta diventano non una cartolina un po’ ingiallita dentro cui rintracciare i moti di speranza di un ragazzino di dodici anni, ma il teatro in cui Gigio si muove davanti a noi, noi che ora siamo immersi nei colori e negli odori, nelle canzoni, nei programmi alla radio o in tivvù, di una vita che non c’è più, ma che grazie alla magia della letteratura accade di nuovo.
Fin dal suo esordio nella narrativa, con “Per dove parte questo treno allegro” (Theoria 1988), Veronesi pone al centro del suo interesse la famiglia, e in particolare il rapporto mai semplice, e mai del tutto chiaro, fra un padre e un figlio. In “Caos calmo” il padre coincide con l’Io narrante che da voce alla storia, così come in “Terre rare”, in cui ritroviamo lo stesso protagonista, Pietro Paladini, stavolta alle prese con un socio che è scomparso lasciandolo solo con i suoi guai e con una figlia che, senza un perché, è scappata di casa.
In “Settembre nero” il rapporto padre-figlio viene inquadrato dentro un rovesciamento, non è più il padre a fare i conti con gli inciampi che toccano a ogni famiglia, ma è suo figlio, a cui sarà affidato il compito di far luce sulle ombre che investono gli adulti e imparare, negli stravolgimenti del caso, a non soccombere.
Lo sguardo caldo, mondato da ogni sarcasmo, mai dissacrante, che Veronesi posa sugli altri, con i loro rapporti altalenanti, con le loro fragili sicurezze e le fragorose cadute, si rende se possibile più indulgente. Sono gli occhi di Gigio a guidarci lungo questa storia che parte da un ingenuo candore e arriva, dopo le svolte a cui l’autore sottopone il suo protagonista, a un’improvvisa consapevolezza.
Il viaggio verso l’età adulta si compone di strappi dolorosi, eppure in mezzo allo smarrimento c’è sempre spazio per l’amore, come quello che Gigio prova ostinato per sua madre, per sua sorella, e per un padre che ora vive con un’altra famiglia.
Se Marco Carrera, il protagonista del “Colibrì”, con cui Veronesi ha vinto per la seconda volta lo Strega – unico autore a riuscirci, nella storia del premio, insieme a Paolo Volponi – vorrebbe affrontare i giorni da fermo, ma a muoversi attorno a lui sono gli eventi che si dispiegano lungo l’arco di una vita lunga e frastagliata, Gigio neanche ci prova a imitare un colibrì e a star fermo pur di trovare un suo equilibrio. Lui si butta, si affida, azzarda, tenta, spera, prova a prendersi ciò che desidera, e cioè Astel Raimondi, la ragazzina dalle trecce nere come onice che gli insegna l’amore, il tormento e la nostalgia. Ma è qui che il romanzo compie un ulteriore salto, perseguendo un’ulteriore ambizione, perché ai fatti in soggettiva del piccolo universo di relazioni legate a Gigio, ecco che viene a sommarsi la Storia.
Esplode ciò che per il protagonista è fino ad ora la normalità, così come esplodono i colpi nel villaggio olimpico, a Monaco, dove un commando di terroristi palestinesi prende in ostaggio alcuni atleti israeliani. Da adesso in poi il mondo non sarà più quel posto sicuro, vegliato dalla presenza di un padre-tritone e di una madre-leonessa: s’insinua una nuova sensazione di perdita, e forse di pericolo.
I giorni di chi si appresta a diventare adulto perdono un giro di quell’originale fulgore. Tutto cambia. Tutto potrebbe di nuovo all’improvviso cambiare. Le certezze arretrano, lì dove ad avanzare sarà una nuova visione delle cose, a volte dolente a volte no, di sicuro improrogabile se si smette di avere dodici anni. Ma sarà grazie al potere delle parole che Gigio Ballandi, affermato traduttore di sessant’anni, riuscirà a convertire il dolore legato a quegli eventi in un racconto colmo di speranza, riappropriandosi, e facendone dono ai lettori, di uno sguardo immacolato e di una voce che è ancora innocente e luminosa, fresca, tenerissima.