Il piccolo dittatoreLa vittoria di Trump renderebbe la politica estera americana pericolosa e imprevedibile

Il ritorno del candidato populista alla Casa Bianca potrebbe inaugurare un’era di isolazionismo e di protezionismo, che metterebbe sotto pressione gli alleati e aumenterebbe l’instabilità internazionale

LaPresse

Gli alleati degli Stati Uniti non sanno cosa aspettarsi dalla politica estera di Donald Trump, nel caso in cui vincesse le elezioni presidenziali del 5 novembre. Di una cosa però sono certi: che avranno un rapporto complicato con Washington. Alcuni collaboratori del candidato repubblicano intervistati dal Financial Times hanno dichiarato le tre linee guida per le future relazioni internazionali degli Stati Uniti: pressione commerciale sulla Cina, tariffe sempre più alte per spingere gli alleati europei a spendere di più per la difesa, negoziati rapidi per terminare le guerre in Ucraina e in Medio Oriente. 

A orientare la politica estera americana sotto la presidenza Trump sarebbe il principio del vantaggio commerciale bilaterale. «Non si tratta di essere un alleato o un avversario. Se sei un partner commerciale con noi, devi commerciare in termini di reciprocità», spiega il senatore Bill Hagerty, ambasciatore in Giappone durante il primo mandato di Trump e potenziale membro del gabinetto di governo nella sua eventuale seconda Amministrazione. Una visione, questa, che ben si sposa con il motto trumpiano dell’America First, che traduce un sostanziale isolazionismo di Washington nei confronti degli altri attori sulla scena internazionale – lontana eco degli anni Trenta dello scorso secolo.

Sulla scia del protezionismo del primo mandato, Trump ha minacciato di introdurre un nuovo regime tariffario che prevede il venti per cento su tutte le importazioni, fino al sessanta per cento sulle importazioni cinesi, anche se Trump si è spinto fino a parlare di mille o duemila per cento, e la possibilità di aumenti consistenti su altri obiettivi non specificati.

Per quanto riguarda i partner, i funzionari trumpiani spiegano che si aspettano che i membri della Nato diano il loro contributo all’alleanza almeno nella misura in cui lo fa l’America. Dopo le pressioni esercitate da Trump durante il primo mandato, i partner dell’Alleanza Atlantica hanno aumentato la quota di bilancio destinata alla difesa. A giugno, ventitré dei trentadue membri della Nato avevano raggiunto l’obiettivo di spendere il due per cento del Pil per la difesa, il doppio rispetto a quattro anni fa. Un secondo mandato di Trump porterebbe a un’ulteriore pressione sugli investimenti dei Paesi alleati.

Una rielezione del tycoon potrebbe inoltre inaugurare un nuovo modello di partnership internazionale. Come spiegato da Elbridge Colby, collaboratore del Pentagono nel primo mandato di Trump, gli Stati Uniti potrebbero iniziare a propendere per alleati «che sono autonomi, capaci e disposti a fare cose per interessi comuni, anche se non sono sempre d’accordo con noi». Quali, ad esempio, la Polonia, la Corea del Sud, l’India e Israele.

In merito alla guerra in Ucraina, Trump e il suo candidato vicepresidente, James David Vance, hanno parlato ripetutamente del loro desiderio di porvi fine. Ma in che modo? A settembre Vance ha proposto l’idea di congelare il conflitto: la soluzione porterebbe alla creazione di regioni autonome all’esterno di una zona demilitarizzata, che lascerebbe Kyjiv in un limbo diplomatico, fuori dalla Nato.

Il piano sarebbe così una rivisitazione dei falliti “Accordi di Minsk” del 2014 e 2015, che cercavano di porre fine ai combattimenti nell’Ucraina orientale tra le forze ucraine e i separatisti sostenuti da Mosca. La bozza dell’accordo prevedeva il mantenimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina pur prevedendo zone autonome. A vigilare sull’attuazione del piano, dichiara un consigliere di lungo corso di Trump, sarebbe l’Europa, non le forze della Nato e nemmeno le forze di pace dell’Onu, decretando così un allontanamento dalle faccende europee da parte di Washington.

Questa non sarebbe per nulla una buona notizia per Kyjiv: un accordo senza forti garanzie di sicurezza equivarrebbe a una resa a Vladimir Putin. Al leader russo verrebbe così concesso di perpetrare un nuovo e più violento assalto nei confronti dell’Ucraina. Oltre a ciò, l’allontanamento dell’America dal quadrante euroasiatico potrebbe anche portare a una spaccatura in Europa, con Paesi che continuerebbero a orbitare attorno agli Stati Uniti e altri che ne prenderebbero le distanze.

Come convincere Putin a trattare, però? Trump potrebbe minacciare di far crollare l’economia russa abbassando il prezzo del petrolio e del gas, incentivando le operazioni di estrazione da pozzi sul territorio americano, spiega Mike Waltz, uno dei principali portavoce repubblicani sulla sicurezza nazionale alla Camera dei Rappresentanti. La leva economica, secondo questa tesi, potrebbe permettere a Trump di intavolare un accordo con un Putin in una condizione di superiorità.

Anche sulla guerra in Medio Oriente, stando a quanto dicono i suoi uomini, Trump avrebbe un piano. Persone vicine al tycoon insistono sul fatto che non esiterebbe a fare pressioni su Benjamin Netanyahu se ritenesse che fosse arrivato il momento giusto per un accordo. «Il Presidente Trump può separare Israele da Netanyahu», afferma Ric Grenell, un energico sostenitore di Trump. «Può essere critico nei confronti delle decisioni della sua leadership, pur mantenendo il sostegno al diritto del Paese di difendersi».

Una possibilità è che Trump inviti Netanyahu a Washington per spingerlo verso un cessate il fuoco che porti alla restituzione degli ostaggi presi da Hamas. E questo perché Trump è intenzionato a tornare all’idea di un accordo con Israele e Arabia Saudita per una pace regionale a lungo termine.

Trump sarebbe disposto anche ad aumentare la pressione sul vecchio nemico di Israele, l’Iran. Nel suo primo mandato ha ritirato l’America dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Ora, secondo Fred Fleitz dell’America First Policy Institute Center for American Security, l’obiettivo dovrebbe essere quello di mandare nuovamente in bancarotta l’Iran e di ripristinare la massima pressione.

Per quanto concerne la Cina, infine, una questione cruciale è come risolvere la divergenza tra i falchi del suo partito, che parlano di una nuova guerra fredda con la Cina – considerando la delicata questione di Taiwan, e il suo istinto di applicare la leva economica e fare accordi con Pechino. «Trump parla molto più di accordi commerciali, tariffe e valuta che di ciò che faremo in un conflitto nello Stretto di Taiwan», dice Waltz. L’ex presidente ha infatti dichiarato che si aspetta che Taiwan spenda di più per la difesa, e che l’isola non possa dare per scontato il sostegno di Washington in caso di invasione di Pechino.

Sul commercio con la Cina, Trump condivide la visione di Biden. Al momento dell’insediamento, infatti, entrambi hanno imposto tariffe a Pechino per proteggere le industrie strategiche americane. L’unica differenza è che Trump minaccia un regime più caotico di quello di Biden. In questo scenario, l’ex presidente si aspetta che l’Europa si unisca all’America nell’aumentare le tariffe sulle esportazioni cinesi.

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