La Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (c.d. “Commissione di Venezia) ha redatto un Codice di buona condotta in materia elettorale secondo il quale l’impianto costituzionale pretenderebbe una certa stabilità delle leggi elettorali e comunque di evitare di modificarle a ridosso delle consultazioni.
Ciò detto, il Consiglio regionale della Campania è chiamato in questi giorni a esaminare un disegno di legge in materia elettorale che intende modificare alcune previsioni vigenti in vista delle elezioni del 2025.
L’idea sottesa alla proposta di legge, pare di capire, è che la maggioranza elettorale che esce dalle urne sia più forte e coesa. Ciò, senza dubbio, potrebbe avere un senso; il punto giuridico è che le modalità con le quali si propone di raggiungere questo risultato e gli effetti sul funzionamento complessivo delle istituzioni regionali rischiano di porsi in modo confliggente con il quadro costituzionale.
Prima di tutto la proposta di modifica prevede la rimozione del tetto massimo di seggi in Consiglio per le liste dei vincitori che ora è previsto al sessantacinque per cento. Tetto che, nel 2020, confinò a quella soglia la maggioranza del presidente Vincenzo De Luca che aveva ottenuto quasi il settanta per cento dei voti. Ciò significa, però, che anche se una coalizione vincesse con il cinquantacinque per cento dei voti potrebbe ottenere quel livello di seggi se non di più visto che il minimo per i vincitori resterebbe come adesso pari al sessanta per cento dei seggi.
Perché addirittura di più? Perché parallelamente si propone l’applicazione di una soglia di sbarramento per le liste pari al tre per cento. A essere precisi quella soglia già c’è, ma oggi scatta solo se il candidato presidente a cui la lista è collegata non supera il dieci per cento dei consensi.
Ciò comporta, come è facile capire, due conseguenze. La prima è legata all’offerta politica: nelle coalizioni tradizionali i piccoli partiti non si salverebbero con un effetto di polarizzazione del voto sui partiti più grandi e saranno disincentivate le liste civiche che spesso, quando sono molte, non arrivano al tre per cento ma eleggono, con le regole attuali, consiglieri; inoltre i candidati a presidente “esterni ai poli più grandi” dovranno candidarsi con una sola lista per non rischiare di avere frammentazione in più liste sotto soglia, riducendo così le possibilità di entrare almeno in Consiglio con una rappresentanza.
Secondo aspetto è la sovra-rappresentazione delle liste che superano il quorum, visto che la somma dei seggi che sarebbero andati alle liste non ammesse sarà destinata alle altre liste. Per intenderci l’impatto cambia di poco se, come sembrerebbe, si stia andando verso un accordo politico per un tetto del 2,5 per cento: se non sono ammesse cinque liste con poco meno del 2,5 per cento, il dodici per cento circa dei seggi pressappoco corrispondenti andrà diviso tra le liste sopra il tre per cento. Meglio andrebbe se rimanesse l’eccezione per le coalizioni i cui candidati superano il dieci per cento come forse si intende correggere la proposta iniziale.
Un certo effetto di polarizzazione ma anche di complessiva conservazione della classe di eletti a livello regionale è confermata anche dalla misura proposta di impedire a tutti i sindaci campani – e non solo a quelli dei Comuni con più di cinquemila abitanti come è adesso – di scegliere con serenità di candidarsi. Attenzione, la scelta non è stata quella della incompatibilità che avrebbe permesso loro di candidarsi e successivamente optare per il nuovo mandato regionale se eletti e di restare sindaci in caso contrario; ai Sindaci è impedito di essere eletti visto che, pur votati, non sarebbero – con la modifica proposta – proclamabili se non dimessisi prima del voto dall’ufficio di sindaco. Insomma, sindaci bravi e sostenuti sul territorio dovrebbero scommettere sulla elezione lasciando prima della candidatura il Comune. L’effetto, ovviamente, è disincentivare la candidatura, a maggior ragione se in liste civiche a rischio di ridotto consenso e quindi di stare sotto la soglia di accesso.
La conseguenza di tutto ciò è che la maggioranza che uscirà vincente dal voto sarà ampiamente sovra-rappresentata con l’inevitabile capacità di assumere decisioni senza le opposizioni proprio quando invece ciò è richiesto: si pensi agli organi e alle procedure di garanzia previsti dallo Statuto regionale.
Sul tema della rappresentatività e sul rapporto di rappresentanza la Corte costituzionale è spesso intervenuta in questi anni e, tra le tante indicazioni che ha dato ai legislatori (statale e regionale), c’è quella di legare il premio di maggioranza (necessariamente distorsivo del voto) ad un tetto minimo di consensi per la coalizione che se lo aggiudica. Con le modifiche in questione appare chiaro che il premio di maggioranza regionale sarebbe potenzialmente arricchito dalla riduzione della offerta politica e della concorrenza elettorale sopra soglia.
Ancora, nel progetto si intende introdurre l’istituto della sostituzione temporanea del consigliere regionale nominato assessore: egli non decadrebbe da componente del Consiglio ma verrebbe sospeso con conseguente sostituzione temporanea a favore del primo dei non eletti che, a sua volta, tornerebbe a casa se l’assessore fosse revocato da componente della Giunta. Il punto è come si possa pensare che quel consigliere ed ex assessore (o meglio assessore rimosso) possa sostenere ancora la maggioranza in aula, determinando invece una instabilità proprio laddove la norma cerca, con le altre misure e con gli eccessi notati, la stabilità dell’indirizzo politico.
Infine, il tema del terzo mandato del presidente della Regione. Come sappiamo si tratta di un principio previsto dalla legge quadro statale n. 165 del 2004 la quale, però, fa un rinvio alla legge regionale. Ciò significa, per alcuni, che la norma statale non sia autoapplicativa e che quindi senza la legge regionale di “recepimento” (che potrebbe implementare quella statale in modo diverso da Regione a Regione) il principio non sia applicabile. Sul punto d’altronde è intervenuta la vicenda di Luca Zaia che, come noto, è giunto al terzo mandato attuale proprio adottando una legge regionale che ha fatto iniziare il conteggio dei due mandati consecutivi dal secondo. Una scelta, questa, che ha retto dal punto di vista giuridico.
A quanto si capisce, la Campania vorrebbe fare qualcosa di simile ma c’è una duplice differenza sostanziale: l’art. 1 comma 3 della legge regionale n. 4 del 2009 ha di fatto già recepito detto vincolo della legge quadro allorché, disciplinando le elezioni del presidente e del Consiglio, ha precisato che «si applicano, inoltre, in quanto compatibili con la presente legge, le altre disposizioni statali o regionali, anche di natura regolamentare, vigenti in materia».
Tra le disposizioni statali allora in vigore vi era già l’art. 2 della legge quadro statale che pone il principio della «previsione della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia».
La normativa regionale avrebbe potuto declinare il principio (ad esempio regolando il numero minimo di anni di mandato per ogni elezione computabile) ma, stante la norma del 2009, sembra aver optato per non declinarlo. Inoltre, una cosa è attuare un principio statale generico, dopo qualche anno ed espressamente, un’altra invece pretendere di farlo con un principio molto chiaro, dopo vent’anni anni e dopo che, nel 2010, Antonio Bassolino, finiti due mandati diretti, non fu comunque, al netto di altre ragioni politiche, ricandidato. Senza dimenticare che la Corte costituzionale, peraltro in un giudizio che riguardava proprio la Campania, ha chiarito che una norma regionale elusiva di un principio fondamentale statale rischia comunque di essere dichiarata incostituzionale (sent. n. 107 del 2017, relatore l’attuale presidente Augusto Barbera).