La guerra non si rivela mai con uno schianto improvviso. È un accumulo lento, quasi silenzioso, di segni e tensioni che solo chi osserva con attenzione sa cogliere prima che diventi inevitabile. Oggi siamo a quel punto. Non è più questione di “se”, ma di “quando.” Il nostro continente, che ha vissuto decenni di pace apparente, si trova ora di fronte a una crisi esistenziale che non vuole ancora riconoscere. È come se avessimo scelto, deliberatamente, di chiudere gli occhi davanti all’inevitabile, come se l’inerzia ci potesse salvare. Ma l’inerzia non è mai stata una difesa. La storia è fatta di movimenti, non di stasi. E oggi tutto si muove verso la guerra.
Vladimir Putin lo ha compreso con una chiarezza spietata. Sa che l’Europa è vulnerabile, sa che è divisa, sa che non è preparata. Ogni sua mossa – dalla Cecenia e dall’annessione della Crimea all’invasione dell’Ucraina, dalla manipolazione energetica al sabotaggio del Nord Stream – non è solo un atto di aggressione, ma una dimostrazione di superiorità strategica. Ogni esitazione europea, ogni tentativo di rimandare l’inevitabile, è un segnale per lui: l’Occidente non ha la forza per fermarlo.
E, questo, nonostante l’Occidente possieda una superiorità tecnologica e militare schiacciante. Ma questa forza è sterile perché manca il coraggio politico per usarla. Le classi dirigenti occidentali sono ostaggio di opinioni pubbliche rammollite dal doping di un’illusione: quella di riscuotere in eterno il dividendo della pace ereditato dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale. Una vittoria che, vale la pena ricordarlo, è stata monca fin dall’inizio. Per sconfiggere il nazismo, l’Occidente si è dovuto alleare con lo stalinismo, e quello stalinismo – che pensavamo sconfitto dalla storia – oggi ritorna, travestito in giacca e cravatta, accettato e accolto nei vertici dei grandi paesi democratici fino a pochi anni fa.
Putin non è altro che l’erede di quel sistema mai realmente morto, mai davvero smantellato. La sua guerra non è una semplice rivendicazione territoriale: è una vendetta storica, un tentativo di riaffermare ciò che lo stalinismo, nel suo nucleo, ha sempre rappresentato.
Ma c’è qualcosa di ancora più fondamentale nella strategia di Putin: per lui, la guerra non è solo un’opportunità geopolitica, ma una necessità economica. L’economia russa è allo stremo, piegata dalle sanzioni, dal crollo delle esportazioni e dalla stagnazione strutturale. Il suo sistema oligarchico, che si regge su una distribuzione di risorse sempre più ridotte, ha bisogno di espansione per sopravvivere. Non si tratta solo di ricchezze materiali – petrolio, gas, territori – ma di legittimità politica. Senza una narrazione di grandezza, senza un nemico esterno contro cui mobilitare il paese, Putin non può mantenere il controllo. La guerra, per lui, non è una scelta: è una terapia d’urto.
Ma la possibilità di questa guerra non è nata oggi, e non è nemmeno una conseguenza diretta delle azioni di Trump, come molti vorrebbero credere. Per comprendere la fragilità dell’Occidente di fronte a Putin, bisogna tornare indietro e guardare con attenzione a un accordo firmato nel 1994: il Memorandum di Budapest. Questo documento, siglato da Ucraina, Russia, Stati Uniti e Regno Unito, è uno dei capitoli più significativi della storia recente e, oggi, appare come un monito di ciò che accade quando la comunità internazionale tradisce le proprie promesse.
All’epoca, l’Ucraina, che possedeva il terzo arsenale nucleare più grande al mondo con millenovecento ogive, accettò di restituire le sue armi atomiche alla Russia di Boris Eltsin in cambio di una garanzia solenne: la sua sovranità e integrità territoriale, inclusa la Crimea, sarebbero state rispettate. Gli Stati Uniti e il Regno Unito, firmatari del memorandum, avrebbero dovuto garantire questa promessa. Tuttavia, quando Putin annesse la Crimea nel 2014, violando apertamente quel patto, non ci fu alcuna reazione significativa da parte di Washington o Londra. Nessuna minaccia concreta, nessun intervento.
Questa mancata reazione ha radici profonde. Putin aveva già imparato, dalla Georgia e dalla Siria, che l’Occidente non sarebbe intervenuto per fermarlo. E il Memorandum di Budapest, che avrebbe dovuto rappresentare una pietra angolare della sicurezza europea, si è rivelato un pezzo di carta svuotato di ogni significato. Il messaggio per Putin era chiaro: l’Occidente non mantiene le sue promesse e non è disposto a combattere per ciò che professa. Questo ha aperto la strada a tutto ciò che è seguito.
Oggi, quando si parla di negoziati, sembra che la guerra si possa fermare mentre si negozia, come una pausa tra i round di un incontro di boxe. Nulla di più falso storicamente. I negoziati per la guerra del Vietnam sono andati avanti per anni, mentre le bombe continuavano a cadere, e centinaia di litri di napalm venivano riversati sulle foreste e sui villaggi. È il tranello che attende Trump, qualora si illuda che sedersi al tavolo delle trattative con Putin possa interrompere il conflitto. La realtà è che i negoziati spesso corrono paralleli alla guerra senza mai fermarla, diventando, a volte, solo un’arma in più nelle mani di chi la combatte.
Non si può ignorare un momento chiave: la scena della cena dei corrispondenti della Casa Bianca, immortalata in un video della Cnn. Obama, con il suo inconfondibile sarcasmo, ridicolizza Donald Trump, allora considerato un outsider senza futuro, e i sostenitori del birtherism. Gli dice: “Io sono lo Stato. Provaci tu a essere lo Stato.” E Trump ci ha provato. Non solo ci ha provato, ma è diventato il simbolo della reazione a quell’arroganza liberal, un fenomeno che ha cambiato radicalmente il panorama politico americano. Anche grazie a Obama, oggi abbiamo Assad. Anche grazie a Obama, oggi abbiamo Putin.
Come se non bastasse, il conflitto in Ucraina sta assumendo proporzioni ancora più ampie. La Cnn ha riportato che soldati nordcoreani stanno già combattendo al fianco della Russia. Questo dettaglio, apparentemente secondario, è in realtà un punto di svolta. L’ingresso della Corea del Nord nel conflitto dimostra che l’Ucraina è diventata il campo di battaglia di un ordine mondiale in trasformazione. È il catalizzatore di nuove alleanze, un segno tangibile di un blocco anti-occidentale che si va consolidando. La Corea del Nord non porta solo uomini e armi: porta con sé il rifiuto di un ordine liberale che viene percepito come debole e decadente.
Nel libro Catastrofe 1914 di Max Hastings, un episodio riassume la follia di momenti come quello che viviamo oggi. Nel 1910, durante una lezione all’accademia militare, il brigadier generale Wilson avvertiva che la guerra si stava avvicinando. Quando un cadetto obiettò che solo una «inconcepibile stupidità» dei politici avrebbe potuto far scoppiare una guerra, Wilson rispose: «Una inconcepibile stupidità è esattamente ciò che avrete».
Stiamo vivendo lo stesso errore. È l’inerzia dell’Europa, il disimpegno degli Stati Uniti, le ambizioni di un leader come Putin, unite a una serie di alleanze pericolose, che ci spingono verso un abisso che non vogliamo vedere. Come scrittrice e pensatrice liberale, che ha vissuto sulla propria pelle le ferite e la tragedia della guerra, non posso che osservare con sgomento la cecità con cui oggi scegliamo di ignorarne i segnali. I valori liberali, con tutte le loro imperfezioni, ci hanno permesso di costruire una società fondata sulla libertà e la dignità umana. Rinunciare a difenderli significa rinunciare a ciò che ci rende umani.
Putin non è solo un uomo. È il simbolo di un ordine che vuole nascere dalle ceneri del nostro. Ma quelle ceneri non sono inevitabili. Abbiamo ancora il potere di scrivere noi questa storia, di scegliere un futuro diverso. Ma il tempo è quasi finito. E l’abisso davanti a noi non aspetterà. La storia non perdona chi sceglie di non scegliere. E noi, oggi, siamo chiamati a scegliere. Adesso.