Le infanzie degli artisti di successo globale spesso sono segnate da quella che Tom Waits definisce “un qualche tipo di ferita precoce”. In genere corrispondono a uno di questi archetipi: quelli feriti dalla perdita o dall’assenza dei genitori; i privilegiati ma soli, senza amore e infelici; e quelli segnati da un’infanzia caotica e itinerante, in cui i ruoli tra adulti e bambini si invertono talmente spesso che nessuno sa più chi è cosa.
Raramente assistiamo a infanzie serene, normali e prive di eventi significativi. La famiglia di Harrison era di gran lunga la più solida, tra quelle dei Beatles: l’unica famiglia tradizionale che rimase unita nella sua età adulta. John Lennon venne cresciuto da sua zia Mimi e lottò tutta la vita contro il peso di aver avuto un padre assente, e una madre che prima lo abbandonò, e poi venne uccisa quando lui aveva appena diciassette anni, proprio mentre stavano iniziando a costruire un legame.
I genitori di Ringo Starr divorziarono quando aveva tre anni: conosceva a malapena suo padre. La madre di Paul McCartney morì quando lui aveva quattordici anni. Harrison, invece, venne su in una famiglia numerosa, che gli offriva sostegno e amore incondizionato. Sua nonna materna viveva proprio dietro l’angolo rispetto ad Arnold Grove. Essendo il figlio minore, era anche il più coccolato, e rimase sempre il golden boy di famiglia. Nel contesto dei Beatles essere “il più piccolo” non era una posizione particolarmente appetibile, ma a casa gli garantiva certi privilegi. “Come spesso accade nelle famiglie con i figli minori, la mamma e il papà di George lo adoravano”, racconta la Boyd. Sua madre una volta dichiarò: “George non era monello, ma trovava sempre un modo per metterci nel sacco”.
La sua musica spesso – troppo spesso, forse – suonava solida e poco drammatica come gli anni della sua formazione. Non aveva la spinta o l’ambizione che di solito gli artisti ereditano da un’infanzia segnata dall’instabilità o dalla morte di un genitore. Era un musicista impegnato e responsabile ma non è mai stato, per sua stessa ammissione, “di natura competitiva”. Nei Beatles avrebbe desiderato avere più spazio creativo, ma non cercò mai di conquistarsi i riflettori. Anche da solista, è sempre stato più a suo agio come parte di un collettivo che come frontman. Fin dal giorno della sua nascita aveva ricevuto amore e attenzioni dalle persone a lui vicine, senza doversi sforzare, e non sentiva affatto il tipico bisogno di adulazione e approvazione comune a tanti artisti.
Ultimo di quattro figli, George Harrison nacque il 25 febbraio 1943 (molti anni dopo raccontò alla rivista Billboard di essere invece venuto al mondo nella tarda notte del 24 febbraio). I suoi genitori si erano sposati nel 1930. Sua madre Louise aveva origini irlandesi, veniva da Wexford ed era una cattolica osservante, anche se non troppo devota. Lavorava in un ortofrutta locale prima della nascita dei figli: Louise, nel 1931, poi Harold nel 1934, Peter nel 1940 e infine George nel 1943. Al momento della nascita dei due figli più piccoli, Harold, il padre, era rientrato a terra da tempo: tra il 1926 e il 1936 aveva lavorato come steward di prima classe sulle navi della White Star Line. Una volta sbarcato trovò lavoro come conducente d’autobus, e poi come autista.
I soldi non erano mai molti. Harrison era nato al culmine della Seconda Guerra Mondiale e cresciuto nell’epoca dei razionamenti, dell’austerity, che in UK non si sarebbe conclusa del tutto fino al 1954: ogni monetina risparmiata contava, ed era importante. Nessuno dei Beatles, ad eccezione forse di Lennon, si mostrava particolarmente disinteressato ai soldi: nelle prime fasi del successo della band era proprio Harrison a tenere d’occhio con maggiore attenzione i flussi di denaro del gruppo, e come venivano utilizzati. Quella fascinazione per i soldi diede origine, in seguito, a brani che mettevano in luce un senso di ingiustizia, come “Taxman” o “Only a Northern Song”. “Comprendevano bene il valore del lavoro dei loro padri”, racconta Tony Bramwell. “George sapeva che suo papà guadagnava appena poche sterline a settimana, quindi non vedeva perché qualcuno che lavorava per lui dovesse incassare di più.Nessuno di loro faceva grandi sciali”.
La scuola frequentata da Harrison, il rinomato Liverpool Institute, venne definita dal compagno di studi Paul McCartney “un luogo dickensiano”, ed è interessante notare come la Liverpool della sua infanzia sia lontana nel tempo rispetto a noi quanto l’epoca di Dickens rispetto agli anni Quaranta e Cinquanta. Liverpool a quei tempi era una città profondamente segnata dalle conseguenze della guerra. Le bombe erano cadute sul porto quando Harrison era troppo piccolo perché ne avesse memoria, però ricordava bene i segni dei bombardamenti che avevano sfregiato la città per decenni a venire, le strade di acciottolato sudice con in fondo i macelli, l’umorismo affilato e le battute feroci, le liti da marciapiede: pantomime pubbliche, rumorose e spesso oscene.
Il lavoro febbrile, il trambusto, lo sporco di quel grande porto, i tram che tagliavano la strada ai pedoni, le barche a vapore, i traghetti e le navi mercantili ammassate nell’acqua. Molte delle case che costituivano l’ossatura della città sono ancora in piedi, anche se il paesaggio urbano e i tempi sono cambiati drasticamente. Il 12 di Arnold Grove non è poi così diverso da allora. Si trova in una strada senza sbocco vecchio stile, con una fila di case a schiera e un vicolo che corre sul retro. Oggi come allora, la casa della famiglia Harrison era un piccolo edificio verso la fine della strada, circondato su ambi i lati da due proprietà identiche. Guardando la facciata da fuori si nota una porta sulla destra, una finestra a sinistra e un’altra subito sopra. Bastano quattro passi per coprirne la larghezza. L’ambiente interno era minuscolo, freddo: non c’erano bagni e non c’era riscaldamento, ad eccezione di una piccola stufa a carbone in cucina, la stanza dove la famiglia tendeva a riunirsi. Il salotto all’ingresso, invece, era freddo e poco accogliente: veniva usato solo in occasioni speciali.
La casa era uno spazio angusto, per due adulti e quattro bambini, il genere di ambiente in cui una famiglia o diventa molto unita o si dà all’omicidio. Gli Harrison scelsero la prima opzione. Tutto sommato, “aveva dei ricordi d’infanzia molto belli”, dice Olivia Harrison. “Aveva una vita famigliare stabile, serena.” Harrison definiva quegli anni, con arguzia, come un periodo di “relativi e assoluti”. L’impressione di Pattie Boyd sulle dinamiche famigliari, quando conobbe il suo futuro marito, era che fossero “molto legati. Una famiglia unita, piena d’amore. Lui era solido, sicuro di sé, quel genere di sicurezza che acquisisci solo con l’amore di una famiglia unita, da bambino.”
In quel periodo, George conosceva a malapena sua sorella Louise, di dodici anni più grande: era andata al college a studiare da maestra, poi si era sposata quando lui aveva dieci anni e si era trasferita in Scozia. In seguito si sarebbe stabilita negli Stati Uniti. Nei ricordi di Louise: “George era un bambino molto disponibile. Quando serviva aggiungere il carbone al fuoco, si alzava sempre per primo: Mamma, faccio io. Vado a prendere la pala. O quando andavamo in chiesa, George lucidava gli stivali di tutti”.
Suo fratello maggiore, Harry, che aveva quasi dieci anni più di lui, se ne andò di casa per fare il servizio militare, poi trovò lavoro e si sposò intorno ai venticinque anni. Peter aveva invece tre anni più di lui: era l’unico dei fratelli con cui Harrison giocasse, e con il quale avesse degli interessi in comune, come la musica. Era loro padre a portare il pane in tavola ma la madre era il cuore e l’anima della famiglia. “Sua mamma era una donna adorabile”, racconta Bramwell. “Una vera mamma, Lou. Ti chiedeva sempre di chiamarla col nome di battesimo. Il papà lavorava sugli autobus ed era un uomo gioviale, sorridente. Se capitavamo sul suo bus non ci faceva pagare il biglietto. Sua sorella Louise era simpatica, ma è sparita per trasferirsi negli States quando eravamo molto giovani. I suoi due fratelli erano dei bravi ragazzi”.
La famiglia era stata per anni in lista d’attesa per le case popolari e quando Harrison aveva sei anni finalmente si trasferirono da Wavertree al 25 di Upton Green, Speke. La loro nuova casa era decisamente un salto di qualità: molto più spaziosa, moderna, con gabinetto interno, era parte di un agglomerato di edifici simili raccolti intorno a un bel cortile centrale. Nonostante quelle comodità, secondo Bill Harry “La mamma di George non era per niente contenta del trasferimento a Speke. Anche se la casa era più bella, avevano il bagno e tutto quanto, le mancava Wavertree, la gente, il senso di comunità”. Speke era una specie di esperimento sociale. Situata dodici chilometri a sud del centro cittadino, si era sviluppata negli anni Trenta come una città satellite, con un misto di prefabbricati e case popolari.
L’aeroporto – oggi dedicato a John Lennon – venne costruito più o meno nello stesso periodo. Gli abitanti erano di origini diverse, una mescolanza di famiglie arrivate da quartieri rispettabili e personaggi meno raccomandabili sfrattati da abitazioni abusive. Harrison ricordava “dei brutti momenti, quando ci trasferimmo a Speke. I mariti di certe donne si davano alla macchia, altre donne sfornavano figli ogni dieci minuti. E gli uomini stavano sempre a zonzo, andavano in altre case…a scopare, immagino”.
“Speke era un postaccio, credimi, molto più pericoloso di Liverpool”, racconta Bill Harry. “Dove abitava George era ok, ma alcuni brutti soggetti che venivano da Liverpool erano stati piazzati nella zona, e dove stavano loro c’erano sempre scontri e risse. Il centro era stato pensato per essere una nuova cittadina, ma non ci avevano costruito cinema e luoghi di ritrovo. I ragazzini la sera venivano a Liverpool: quando uscivano dal pub o dal cinema non c’erano più autobus, quindi a volte per tornare a Speke rubavano le macchine.” Bramwell, che abitava a poche centinaia di metri dagli Harrison, ricorda: “c’erano dei Teddy Boy che si divertivano a farci morire di paura”.