Now and Then Tutto il cibo che hanno cantato i Beatles, ora e allora

Una nuova canzone dei Beatles è qualcosa che fa parlare, un riflettore puntato su un fenomeno musicale senza età, e per noi un’occasione per raccontare lo spazio che il cibo ha trovato nei testi della band

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Secondo John Lennon tutto avrebbe avuto inizio con una torta. O almeno così raccontava nei primissimi anni Sessanta in un articolo, rivolgendosi a chi gli chiedeva il perché di un nome davvero curioso per una band. Una torta fiammeggiante gli era apparsa in una visione, e volava sopra le teste dei quattro ragazzi di Liverpool. Sopra la torta, un uomo che disse: «D’ora in poi voi sarete i Beatles, scritto con la A». John non mancava di ringraziare il signor Uomo. La torta, per amor di precisione, non era un dolce, ma una pie salata, un pasticcio di carne in crosta. Quello raffigurato sulla copertina dell’album “Flaming Pie”, con cui molti anni dopo Paul McCartney rese omaggio alla visione dell’amico.

Così il cibo fa il suo ingresso trionfalmente nella vita del complesso che ha cambiato la storia della musica. E subito afferma un ruolo di ponte tra concretezza e mondo onirico, tra la realtà quotidiana e l’immaginazione. Ma non solo.

Foto di Nick Fewings su Unsplash

Let me take you down
Sicuramente un ponte tra sogno e realtà sono quei campi di fragole dove Lennon dice di voler portare chi ascolta la sua “Strawberry Fields Forever”, un non luogo dove nulla è reale e dove non bisogna preoccuparsi di niente, e con il quale in realtà le fragole nulla hanno a che vedere. Lo Strawberry Field era un vecchio orfanotrofio di Liverpool, nel cui giardino a volte John bambino si rifugiava, con i suoi amici, scavalcando la recinzione.

Sull’altro lato del 45 giri (due lati A, nessun lato B), si trova un altro capolavoro, che a sua volta porta verso l’infanzia a Liverpool, ma in uno stile decisamente più McCartney. A Liverpool o più precisamente a “Penny Lane”, dove si poteva acquistare una porzione da quattro penny di fish and chips (“four of fish”, con un’espressione gergale tipica della città): e il cibo qui è una porta sul ricordo, su quella via di cui Paul fa rivivere i suoni, i personaggi e i sapori.

Se fortemente evocativa è l’immagine della donna sola che raccoglie il riso fuori da una chiesa in cui si è appena celebrato un matrimonio, quella “Eleanor Rigby” che è emblema di tutte le persone sole, decisamente visionari sono i mandarini e i cieli di marmellata di “Lucy in the Sky with Diamonds”, parte di un paesaggio in cui persone simili a cavalli a dondolo mangiano torte di marshmallows. A questo elenco di alimenti immaginifici si vanno ad aggiungere una cipolla di vetro attraverso cui guardare (“Glass Onion”) e un cornflake su cui sedersi per aspettare che arrivi il furgone (“I’m the Walrus”).

Decisamente inquietante è l’immagine dei maialini che vanno a cena al ristorante con le loro mogli maialine e impugnano forchette e coltelli per mangiare la loro pancetta in “Piggies”, scritta dal vegetariano George Harrison.

Cioccolato, tè e vino
È allo stesso Harrison che si deve la canzone più golosa dei Beatles. “Savoy Truffle” è una dedica di George all’amico Eric Clapton, mangiatore seriale di cioccolatini nonostante alcuni problemi ai denti. La canzone è sostanzialmente l’elenco dei gusti delle praline contenuti in una scatola assortita, dalla crema di mandarino al ripieno di zenzero con un cuore di ananas, dal caffè al cocco caramellato: elenco cui si aggiunge la minaccia di doversi far cavare tutti i denti se si eccede con il cioccolato, oltre alla filosofica considerazione che sappiamo di essere quel che mangiamo («You know that what you eat you are»). Un riferimento al cibo decisamente concreto, in questo caso, come lo è quello fatto da Lennon in “The Ballad of John and Yoko”, con il ricordo di una torta al cioccolato mangiata nel sacchetto durante un viaggio lampo a Vienna.

The Beatles perform on the CBS Ed Sullivan Show, New York, 1964 @Associated Press/LaPresse

Molto realistico è anche il tè che Paul dice di voler offrire alla vigilessa cantata in “Lovely Rita”, o quello delle cinque cui fa riferimento John in “Good Morning Good Morning”, quando diventa buio ed è l’ora del tè e di incontrare la moglie («It’s time for tea and meet the wife»). Ancora tè nelle fiabesche atmosfere di “Cry Baby Cry”, dove si racconta della duchessa di Kirkcaldy che sorrideva sempre e arrivava in ritardo per il tè, e in apertura del brano vediamo il re di Marigold in cucina intento a preparare la colazione per la regina.

E poi c’è il vino. Quello che Lennon racconta di aver bevuto, seduto su un tappeto, mentre aspettava una ragazza in “Norwegian Wood”. Quello che un giovanissimo Paul spera di ricevere ancora in dono dalla sua donna insieme a un biglietto per San Valentino o per il compleanno quando avrebbe avuto sessantaquattro anni (“When I’m Sixty-Four”). O ancora quello che lo stesso McCartney dice di voler bere in grande quantità in “Her Majesty”, brevissima ghost track, la prima della storia, che chiude con ironia e leggerezza l’album “Abbey Road”, una dedica a sua maestà, una ragazza carina che però non ha molto da dire: «Vorrei dirle che la amo molto, ma devo avere la pancia piena di vino».

Uova strapazzate e melegrane
Ci sono poi versi che sono impressi nella memoria dei beatlesiani di ferro, prove, esperimenti di testi che gli appassionati non dimenticano ma che non sono stati realmente usati nella stesura definitiva delle canzoni.

Così il brano forse più rappresentativo dei Beatles, “Yesterday”, la canzone che vanta in assoluto il maggior numero di cover, votata da riviste autorevoli ed emittenti tv come la canzone numero uno di tutti i tempi, avrebbe potuto chiamarsi “Scrambled Eggs”. McCartney racconta di aver sognato la melodia di “Yesterday”, caso unico nella sua vita. Al risveglio ha iniziato a canticchiarla con delle parole decisamente poco poetiche: «Scrambled eggs/Oh my baby how I love your legs/Not as much as I love scrambled eggs». Magari stava cucinando davvero uova strapazzate per colazione, magari le uova strapazzate gli piacevano davvero di più delle gambe della sua bella, sta di fatto che Paul ha cominciato con l’assicurarsi che la melodia fosse davvero sua, e che in sogno non fosse riaffiorato il ricordo di un brano di un altro compositore. Fatto ciò ha potuto dedicarsi al testo.

Similmente, “Something”, romantica ballata di Harrison, ha intersecato per un attimo il mondo del cibo. Il verso definitivo «attracts me like no other lover», «mi attrae come nessun’altra amante», non trovava una conclusione, perché George non trovava nulla che potesse essere un termine di paragone per l’attrazione. John suggerì di buttare lì parole, e propose un cavolfiore, «a cauliflower», e George lo seguì con una melagrana «attracts me like a pomegranate». Fortunatamente poi la parola giusta è apparsa nella mente del compositore.

@Associated Press/LaPresse

Get Back
L’episodio che riguarda la scrittura di “Something” è visibile nel documentario “Get Back”, diretto da Peter Jackson, che apre il sipario sullo studio di registrazione dove i Beatles lavoravano: nelle settimane che hanno preceduto il mitico concerto sul tetto i Fab Four cantano, suonano, discutono, ridono, e ovviamente mangiano e bevono. E noi spettatori abbiamo l’illusione di essere con loro, di vederli dal vivo.

Quattro ragazzi che bevono Coca Cola o aranciata, che discutono sulla qualità del tè, che da bravi inglesi non si fanno mai mancare, e che accompagnano con panini, tramezzini o con toast alla marmellata di arance. Ragazzi che versano vino bianco (dall’etichetta si direbbe Riesling Deinhard del ’66). Che fanno pausa e ordinano un pranzo da consumare in sala d’incisione, cose semplici, verdure ovviamente per Harrison. È uno spaccato, in un momento e in un contesto preciso: il rapporto di ogni membro della band con il cibo è qualcosa di sicuramente più complesso, che si evolve nel tempo, tra scelte vegetariane e cambiamenti del gusto. Ma questa è un’altra storia.

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