Mercoledì sera il governo tedesco è entrato ufficialmente in crisi. Dopo un incontro al vertice fra i leader dei tre partiti che compongono la maggioranza – Socialdemocratici (Spd), Verdi (Grünen) e Liberali (Fdp) – il Cancelliere Olaf Scholz ha congedato il suo ministro delle Finanze e leader del Fdp, Christian Lindner, aprendo di fatto la crisi di governo. Non è un fulmine a ciel sereno. Da mesi ormai le tensioni nella maggioranza erano palesi, con continui scontri e compromessi dell’ultimo minuto che, in realtà, lasciavano ai contraenti più frustrazione che altro. Le difficoltà di questa coabitazione erano sempre più evidenti per l’elettorato tedesco, insofferente a un governo ormai da tempo precipitato in una spirale di impopolarità di cui non si vede la fine.
In tutti i sondaggi i tre partiti della maggioranza ottengono risultati disastrosi, un dato particolarmente evidente per i liberali della Fdp, che nelle rilevazioni rimangono bloccati fra il tre per cento e il 4,5 per cento, dunque sotto la soglia del cinque per cento che garantisce l’ingresso nel Bundestag, il Parlamento Federale. Forse è proprio in questi numeri allarmanti che va cercata una delle ragioni di questa crisi, almeno da parte liberale. Da settimane vanno avanzi trattative serrate per approvare l’Haushalt 2025, il budget federale per l’anno prossimo, principale pietra del contendere per il semaforo. La discussione in realtà è iniziata già un anno fa, quando una sentenza della Corte Costituzionale ha bloccato lo spostamento verso misure di lotta al cambiamento climatico di sessanta miliardi di euro, inizialmente stanziati durante l’emergenza Covid, dichiarandolo incostituzionale.
Il governo tedesco si è trovato così a corto di soldi e con una gigantesca gatta da pelare tra le mani, con da un lato Spd e Grünen aperti all’ipotesi di allentare lo Schuldenbremse – il freno al debito – per avere i fondi necessari agli investimenti previsti, e dall’altro il ministro delle Finanze Lindner rigido custode dei conti in ordine e assolutamente contrario all’idea. Per di più venerdì scorso Christian Lindner ha diffuso un paper con una serie di proposte per arrestare il trend di stagnazione in cui è bloccata l’economia tedesca, e rilanciare produttività e investimenti; proposte però fatte apposta per far infuriare i suoi partner di coalizione, fra significativi tagli nelle politiche sociali e una decisa inversione di rotta nella gestione alla lotta al cambiamento climatico.
L’impressione è che il paper di Lindner avesse come obiettivo proprio scatenare queste reazioni fra socialdemocratici e verdi, per scavare un solco ancora più profondo rispetto a loro, nel tentativo di lanciare un messaggio agli elettori liberali delusi da questa esperienza di governo. Cercare cioè di riaffermare in maniera radicale la propria identità politica, in un momento in cui – per lui e per il partito – si tratta ormai di vera e propria sopravvivenza. Uscire dal Bundestag sarebbe un colpo terribile, a cui la leadership di Lindner certo non sopravvivrebbe.
L’incontro al vertice di mercoledì sera avrebbe dovuto, per l’ennesima volta, trovare un punto di compromesso e scongiurare il peggio. E invece ha sancito l’uscita della FDP dal governo e la crisi di governo – cioè, appunto, il peggio. Alla proposta di Lindner di nuove elezioni, Scholz ha deciso che la misura era colma.
Nella prima conferenza stampa utile, il Cancelliere ha attaccato duramente il suo ormai ex-ministro delle Finanze, accusandolo di egoismo eccessivo e di aver perso di vista l’interesse generale, concentrato solo su una gestione clientelare e partitocentrica del suo mandato. Accuse a cui Lindner ha risposto pochi minuti dopo, notando come il discorso di Scholz suonasse già preparato da tempo e quindi addebitando al Cancelliere la vera responsabilità della crisi di governo.
Sulle responsabilità si può discutere, ma è realistico ipotizzare che la tempistica della crisi non sia del tutto sgradita a nessuno dei due. Lindner può smarcarsi da un governo estremamente impopolare e riprofilare sé e il suo partito in maniera più forte e netta, nel tentativo – oggettivamente disperato – di recuperare elettori delusi e preoccupati dalla contaminazione con una coalizione “di sinistra”; e Scholz può riallineare la Spd dietro di sé, in una situazione di emergenza che potrebbe portare i socialdemocratici a fare buon viso a cattivo gioco e rinunciare a puntare su un altro candidato – come ad esempio il popolarissimo Ministro della Difesa, Boris Pistorius – in nome dell’unità e del momento estremamente delicato. Tanto le prospettive di vittoria per loro sono risicatissime: che si vada a votare ora o a settembre prossimo, una vittoria della Cdu/Csu guidata da Friedrich Merz è nei fatti inevitabile.
Già, ma quando si andrà a votare? La domanda resta aperta. Scholz ha dichiarato che chiederà la fiducia al Bundestag il 15 gennaio: a quel punto si vedrà. Se otterrà la fiducia si andrà avanti fino a settembre, scadenza naturale del mandato, altrimenti si tornerà alle urne a marzo. Nel frattempo, come ripetono molti esponenti della Spd in queste ore, l’attività del governo può ancora andare avanti, trovando accordi di volta in volta in Parlamento per l’approvazione di leggi e proposte – magari contando su maggioranze oblique.
Perché dalle parti della Fdp non tutti sembrano accodarsi volentieri alla linea dura di Lindner. Degli altri tre ministri liberali in carica, solo due si sono fatti da parte: Volker Wissing, ministro dei Trasporti, ha infatti deciso di lasciare la Fdp e restare in carica. E magari qualcun altro nel partito lo seguirà. Ma le speranze di andare avanti fino a settembre prossimo sono davvero ridotte al lumicino, e il presidente della Repubblica Federale Steinmeier si è detto pronto a sciogliere il Bundestag. «Non è il momento di tattiche e schermaglie», ha dichiarati.
Certo è che la Germania arriverà al voto, quando sarà, in estrema confusione. Con un’economia stagnante, una società profondamente divisa, un Est dominato dall’estrema destra in forte ascesa. E in un contesto mondiale particolarmente difficile, con un nuovo inquilino – e che inquilino – alla Casa Bianca, partenariati commerciali in subbuglio e un’Europa sempre meno capace di trovare una voce comune con cui affrontare situazioni cruciali, come la guerra in Ucraina e la crisi di Gaza.