Un piano più complesso
Fabio era titubante, nelle riunioni in cui si mettevano a punto i dettagli del primo piano. Nel magazzino da idraulico del padre di Nicola, una lampadina che pende dal soffitto e qualche sedia disposta in cerchio, gli chiedevano cosa ne pensasse, e lui li guardava con un’espressione da cervo sorpreso dai fari sulla statale. Cos’è, gli angeli gli avevano forse tagliato la lingua? Fabio non sapeva bene cosa dire, si grattava la cicatrice del morso sbiancata sul collo.
«Quindi, pensi che ci sia qualche parte del piano che andrebbe rivista?», lo incalzavano inclinando la testa di lato.
«Boh, non lo so», balbettava Fabio.
Un segno di scarsa convinzione, e quindi inaffidabilità.
Per cui, quando a inizio dicembre ci si riunisce di nuovo per tirare fuori delle idee e Fabio non viene invitato, Wedra sa il motivo: bisogna fare fuori anche lui. E a un certo punto, dopo aver scartato tutte le proposte di quella sera, in un lampo di terrore Wedra si rende conto di non essere ancora intervenuto, non ha quasi aperto bocca; allora al primo momento di silenzio, anticipando un sollecito che potrebbe far dubitare della sua determinazione, butta lì la prima idea che gli viene in mente, così, giusto per non stare zitto: «Potremmo farli esplodere mettendo dei petardi nell’auto», dice, e aspetta che l’idea venga scartata spingendo la punta della lingua contro la guancia, facendo battere il piercing ad anello sul dente.
Invece la discussione che ne segue, tra chi dice che è una completa idiozia e chi pensa che sì, potrebbe anche funzionare, si conclude imprevedibilmente con: «Va bene, mettiamo da parte l’idea della buca. Proviamo. La macchina ce la metti tu?».
Così la macchina ce la mette lui. E sempre lui, la notte del 31 dicembre 1997, mette i due petardi nel serbatoio, il primo rivolto all’ingiù che fa cilecca, il secondo nel verso giusto che prende fuoco e dovrebbe innescare, esplodendo, gli altri petardi nascosti sotto il sedile posteriore. Lì Fabio e Chiara, la pioggia che tamburella sul tettuccio, lei a cavalcioni su di lui, stanno facendo un sesso poco convinto per ordine della setta. Così dovrebbe sembrare un incidente, un razzetto vagante o un petardo inesploso durante la notte di Capodanno, e boom. La macchina è parcheggiata in una via appartata, schermata dalla boscaglia. Fabio, forse, è addirittura vergine.
Fuori dalla discoteca dell’Acquatica, Andrea e Nicola ripensano in silenzio al piano, Andrea con risentimento perché avrebbe voluto che fosse il suo, quello della buca, a essere messo in pratica; Nicola dubbioso che possa funzionare. Fumano una sigaretta aspettando di sentire il rumore di un’esplosione più forte delle altre, guardano i fuochi d’artificio che si riflettono sugli scivoli lucidi di pioggia, le braci delle sigarette che pulsano nel buio, e all’improvviso Nicola smette di massaggiarsi il pizzetto e dice: «No, non può funzionare. Vai a fermare tutto».
Andrea corre, sollevato, ma a metà strada vede Ozzy e Wedra che stanno tornando indietro. In lontananza la macchina sta già prendendo fuoco, si vede una piccola colonna di fumo che si alza nella pioggia. E rientrano nel locale. Ma niente. Non esplode niente.
Fabio e Chiara hanno tutto il tempo per accorgersi delle fiamme, del fumo, uscire mezzi svestiti dall’auto, raggiungere gli altri che gli fanno i più sinceri complimenti per aver superato un’altra prova di coraggio. Quando arriveranno i pompieri, alle prime luci dell’alba, ci sarà molto poco da spegnere. Fabio e Chiara non denunceranno nulla. Al massimo diranno che hanno inavvertitamente fatto cadere un mozzicone sul sedile.
9 gennaio 1998
Il più bel trucco del diavolo è farti credere che non esiste.
Charles Baudelaire
L’omicidio perfetto
E quindi la buca. Dalle sue parti, dietro casa, c’è un bosco, e lui conosce un punto molto interno in cui non passa mai nessuno. «Perché se non c’è corpo, non c’è reato, è l’omicidio perfetto», spiega al cerchio di sedie Andrea, con modesta soddisfazione, e si butta indietro sullo schienale a braccia conserte. Non andranno mai a cercarli nel Parco del Ticino, a cinquanta chilometri di distanza dal Midnight, dove li vedranno per l’ultima volta.
Il cerchio di sedie rumoreggia favorevole.
Così, dopo aver definito i dettagli – la cosa migliore è che sembri una fuga d’amore –, ci si organizza per andare a scavare di notte, ma nel momento di concordare il come e il quando, Ozzy, Mario, Marco ed Eros dicono che loro, insomma, loro abitano lontani, poi ci vogliono un sacco di ore a scavare, farebbero troppo tardi. Oltre ad Andrea e Nicola, volontari, rimangono i soli Wedra e Bontade. Bontade è di Somma, non c’è modo per lui di tirarsi indietro; e volendo potrebbe ospitare Wedra per la notte, aggiunge Andrea. Wedra non ha più scuse: tanto vale offrirsi volontario.
Ci mettono una, forse due notti. Più probabile due. Uno o due venerdì notte parecchio freddi. Foglie scricchiolanti di brina. Torce che tagliano il buio, e il bosco che ricuce con dita d’ombra e corteccia dopo il loro passaggio. Le pale sibilano nel terreno ghiacciato, tutte tranne quella di Bontade. Riesce a malapena a tenerla in mano, tanto trema. Non c’entra il freddo, non c’entra l’asma, di cui soffre fin da bambino, e tantomeno le allergie agli acari domestici e alle graminacee, i vaccini a cui si sottopone ogni anno. È che non ce la fa. Per quanto negli ultimi mesi abbia iniziato a vestirsi di nero, a bestemmiare, a saltare l’ora di religione e disegnare sul diario di una compagna di classe croci rovesciate e 666, a mangiare «la pizza alla diavola e tanto peperoncino», come dirà il fratello, per quanto si sia fatto crescere le unghie, si sia fatto tatuare da Wedra un demone sul bicipite e si sia impresso a fuoco un ciondolo a forma di teschio sul polso, e dica ad Andrea «guarda, guarda. Lo vedi? Il mio sguardo è cambiato. Si vede? È più cattivo», Bontade è pur sempre il diciannovenne timido e cagionevole, goffo, che sbatte contro gli spigoli e inciampa nei suoi stessi piedi, che non guarda quasi mai negli occhi chi gli parla e sorride come chi ha appena addentato una fetta di limone ricoperta di zucchero. Fino a qualche tempo prima costruiva i modellini di aerei ed elicotteri, dipingeva i manici di scopa e al massimo ascoltava i Nirvana o i Litfiba. Anche adesso, quando torna dai suoi o va a casa di qualcuno, si toglie gli orecchini e si abbassa bene la manica sul tatuaggio.
Bontade, Andrea, Nicola, Wedra. Il più grande di loro ha ventidue anni. Bontade, il più piccolo, non arriva a venti.
Andrea lo guarda dare un paio di palate poco convinte e fermarsi curvo sul manico dando le spalle alle torce posate sulle foglie secche, il corpo scosso dai brividi. «Dammi qua, dammi qua. Che ti faccio vedere», gli dice strappandogli la pala di mano, e dà una, due, tre palate rumorose. «Ecco, datti una mossa, che non vogliamo stare qua tutta la notte».
All’alba di sabato 17 gennaio 1998, quattro pale conficcate in verticale sopra una montagna di terra indicano che la buca è pronta.
Bontade, le unghie sporche di terra, si rigira tra le lenzuola, poi verso mezzogiorno si alza, sveglia Wedra, lo accompagna alla porta – forse si scambiano poche parole, uno sguardo –, e inizia a pensare. Nessuno può sapere ciò che gli passa per la testa quel pomeriggio, lui che la sera dovrebbe farsi trovare accanto alla buca. Mentre gli altri si ritrovano al Parco Sempione mettendo insieme le tessere di un puzzle che compongono da settimane, e poi da lì vanno al Midnight come ogni sabato sera, lo si può immaginare che gira per casa tormentandosi il pizzetto rado, fumando una sigaretta dopo l’altra, provando a buttare giù qualche boccone senza successo; Chiara e Fabio, a cui viene detto che quella sera ci sarà un rituale diverso dagli altri, e Bontade che guarda scendere il sole sopra i boschi di Somma Lombardo, senza concentrarsi su nulla in particolare, solo cercando di tenere a bada il respiro; Fabio che viene scortato da Nicola a chiamare il padre per dire che quella sera dorme da Chiara, poi riattacca, esce e si allontana con Chiara verso viale Sabotino, mentre Andrea, Nicola e Mario fanno il giro dall’altra parte per ricongiungersi dove è parcheggiata l’auto, e intanto Bontade nel bagno di casa vomita senza riuscire a vomitare, sommessamente, coi suoi in salotto di fronte alla televisione accesa; e quando la Ford Fiesta verde metallizzato imbocca via Madonna della Ghianda e passa tra il santuario e il cimitero di Mezzana, con Andrea che ripete a Fabio «non ti preoccupare che per la una sei a casa», e arriva in fondo, dove c’è l’ingresso del bosco, e prosegue a sbalzi e scossoni fino alla buca nascosta dalla montagna irta di pale, Bontade non c’è.
Dal momento in cui Andrea e Nicola buttano l’ultima palata di terra, raccolgono le foglie sporche di sangue in un sacchetto di plastica bianco e ricoprono il rettangolo scuro con foglie pulite e ricci di castagno, come se non fosse mai stato scavato niente, mentre Mario si fuma una sigaretta tamponando la ferita all’avambraccio, tutti sanno che Bontade ha i giorni contati. Lo sa anche lui, per quanto provi a convincersi che sia tutto un lunghissimo incubo, da cui qualcuno prima o poi lo sveglierà.
Il citofono suona, il pomeriggio dopo, squarciando anche quest’ultima illusione. È Andrea, che gli dà appuntamento al bar Giardino, dove Bontade non ha nemmeno il coraggio di fare quella domanda. Seduti ai tavolini, lo guarda e aspetta che gli venga detto qualcosa.
Andrea è silenzioso ma di buon umore, sorride aspettando la domanda che non arriva, e allora è lui a dire: «Allora? Non mi chiedi manco niente? È stato fatto».
Silenzio.
«Sentiamo, perché non ti sei presentato?»
«Eh. Stavo per entrare nel bosco, ma poi. Sì. Ho visto una macchina. Dove c’è l’ingresso, sai. Lì. Era parcheggiata lì, coi fari accesi puntati».
«Be’» gli dice Andrea con una faccia di pietra, «potevi fare il giro ed entrare da Mezzana».
Bontade non sa cosa dire. Non sa cosa guardare.
© 2024 Rizzoli
Tratto da “Il più bel trucco del diavolo” (Rizzoli) di Gianluca Herold, pp. 336, 18,50€