Italiani a BakuGiorgia Meloni e quell’idea distorta delle priorità della transizione verde

Durante il suo intervento alla Cop29 sul clima, la presidente del Consiglio ha citato di striscio le rinnovabili, inserendole nello stesso discorso di fonti fossili o tecnologie che, se va bene, esisteranno tra trent’anni

AP Photo/LaPresse

Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – A Baku, Giorgia Meloni è stata Giorgia Meloni. Non ha recitato, non si è ammorbidita in base al contesto e non ha alzato l’asticella dell’ambizione climatica del suo Paese. La presidente del Consiglio, durante il discorso alla Cop29 sul clima (11-22 novembre), ha detto che «dobbiamo proteggere la natura con l’uomo al centro», criticando poi gli approcci «ideologici e non pragmatici» alle misure per fermare il riscaldamento globale.

L’unica strada verso il «successo» (ma la transizione verde non è una gara in cui prevalere sull’altro) è la «neutralità tecnologica», ha aggiunto la leader di Fratelli d’Italia, secondo cui «non esiste un’unica alternativa alle fonti fossili» perché i nostri consumi energetici sono destinati a crescere a livello globale, anche per via dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. 

Serve, prosegue la premier, un «mix energetico equilibrato» fondato su «tutte le tecnologie disponibili, e non solo sulle rinnovabili». È un messaggio di enorme sfiducia verso il mercato delle fonti energetiche pulite, ormai mature anche in termini industriali e occupazionali. Ma Giorgia Meloni le ha solamente citate – come se fosse una scocciatura di cui parlano già tutti –, affiancandole poi a «gas, biocarburanti, idrogeno, cattura di CO2 e fusione nucleare». Quest’ultima, ricordiamo, non esiste, ma la presidente del Consiglio l’ha definita una «svolta storica».  

Secondo il chimico Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr e co-fondatore di Energia per l’Italia, Meloni ha offerto «false speranze», perché «la fusione nucleare non è oggi un’opzione energetica: è un campo di ricerca con grande potenziale, ma che non potrà contribuire alla decarbonizzazione almeno per i prossimi trent’anni, quelli cruciali per evitare gli effetti più devastanti del cambiamento climatico». In coro, la scienza continua a ripetere che la priorità politica deve rivolgersi all’eolico, al solare, all’idroelettrico a tutte le rinnovabili del presente, ma la premier ha inserito tutto nello stesso pentolone, ignorando il peso delle dosi nella ricetta della transizione verde.  

Secondo Luca Bergamaschi, direttore e co-fondatore del think tank per il clima Ecco, «la cosa forse più grave dell’intervento di Meloni è il sostegno al gas che contraddice gli impegni climatici» della Cop28 di Dubai. La presidente del Consiglio, verso la chiusura di un discorso in cui non ha annunciato nuovi impegni di finanza climatica da parte del suo governo, ha ricordato di essere «una madre», e che in quanto tale prova una grande soddisfazione quando lavora per implementare politiche in grado di consegnare a sua figlia e alla sua generazione un mondo migliore. Alla fine ha citato una frase di William James, tra i fondatori del pragmatismo tanto millantato (impropriamente) da Meloni: “Agisci come se quel che fai facesse la differenza, perché la fa”. 

Da Joe Biden e Justin Trudeau a Emmanuel Macron e Olaf Scholz, passando da Ursula von der Leyen: sono tanti i leader occidentali che hanno scelto – per motivi diversi – di non presentarsi nella capitale azera per il ventinovesimo vertice delle Nazioni unite sul clima. Giorgia Meloni, però, non poteva mancare. Non di certo per la sua sensibilità ecologica, ma per le relazioni tra Roma e il Paese ospitante della Cop29, l’Azerbaijan, un petrostato che basa la quasi totalità delle sue esportazioni (novantadue per cento) su gas e petrolio. L’Italia è il primo partner energetico europeo dell’ex repubblica sovietica affacciata sul mar Caspio, che esporta verso i nostri confini il cinquantasette per cento del proprio petrolio e il venti per cento del proprio gas. 

Ieri, martedì 12 novembre, il presidente autoritario azero Ilham Aliyev (in carica da cinque mandati) ha definito il petrolio «un dono di dio», legittimando il pessimismo che aleggia intorno allo stadio olimpico di Baku. Quella del 2023 a Dubai è stata la Cop delle parole di un nuovo mondo, finalmente indipendente dalle fonti fossili: dall’ambizione del phase-out (eliminazione graduale di gas, carbone e petrolio) al compromesso del transitioning away (un allontanamento più soft) nel testo definitivo.  

Al netto delle dichiarazioni di Aliyev, la ventinovesima Cop è invece meno accattivante – ma non per questo meno importante – per un semplice motivo: i negoziati si concentreranno sui soldi e non sugli obiettivi climatici da sbandierare su card social o titoli di “brevine” online. Sta a noi, che di mestiere facciamo informazione, sottolineare la concretezza e l’urgenza della finanza climatica, volta a colmare delle disuguaglianze inaccettabili tra Nord e Sud globale.

Al centro della Cop29 c’è la definizione del New collective quantified goal (Ncqg), ossia il nuovo target finanziario per il clima che sostituirà l’obiettivo dei cento miliardi di dollari l’anno. Queste risorse economiche dovranno essere stanziate nel prossimo decennio dai Paesi più ricchi per i Paesi più poveri e in via di sviluppo, che hanno bisogno di una (grossa) mano sia per adattarsi al riscaldamento globale, sia per costruire un sistema produttivo non fondato su fonti energetiche sporche (altrimenti è tutto da rifare). 

Quanti soldi servono? Chi deve pagare? E la Cina? Sono le grandi domande di questa Cop. Intanto, il 12 novembre la Banca mondiale (che amministra il Fondo Loss and damage) e le principali banche multilaterali di sviluppo hanno annunciato l’impegno di muovere centoventi miliardi l’anno entro il 2030 verso i Paesi a basso e medio reddito: una cifra esigua rispetto alle loro necessità reali, ma è un inizio.

Nonostante il tema meno catchy, la conferenza di Baku è la seconda Cop più partecipata di sempre, con sessantasettemila persone accreditate. La conferenza Onu sul clima più affollata nella storia è stata quella del 2023 a Dubai: per la prima volta in sette anni, sottolinea Carbon brief, una Cop non ha superato l’edizione precedente in termini di partecipazione. 

I negoziati entreranno nel vivo dopo il giorno di riposo (domenica 17 novembre), ma tra lunedì e mercoledì non sono mancati i colpi di scena. Uno su tutti, l’accordo sull’articolo 6.4 del trattato di Parigi, da cui nascerà un meccanismo per lo scambio dei crediti di carbonio gestito globalmente dall’Onu e non da certificatori privati. È una novità che punta a risolvere, tra gli altri, il problema dei crediti di carbonio fantasma (per approfondire, cliccate qui). 

Un altro colpo di scena, questa volta negativo, è stato uno scoop di Politico Europe, secondo cui l’Unione europea potrebbe non riuscire a presentare il proprio piano sulla riduzione delle emissioni (Nationally determined contribution, Ndc) entro la scadenza del 10 febbraio 2025. Anche Bruxelles inizia a tentennare sugli obiettivi di mitigazione climatica: una circostanza che, secondo gli analisti di Italian climate network (Icn), potrebbe decretare la fine del Mitigation work programme, un importante piano sul taglio delle emissioni di gas serra. «Perché dovremmo continuare ad appuntare la matita se sappiamo già che non scriveremo nulla?», si è chiesto martedì un delegato sudcoreano, secondo cui una Cop senza risultati sulla mitigazione sarebbe «assurda». Una preoccupazione legittima e che non possiamo non condividere.

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