Nel novembre 2018 vennero alla luce in Cina i primi bambini geneticamente modificati. Il bioingegnere He Jiankui, trentanove anni, soprannominato il «Frankenstein cinese», e il suo team utilizzarono una tecnologia di modifica del Dna chiamata Crisp-Cas9 – spesso descritta come «forbici genetiche» – con la quale cambiarono il gene Ccr5 a degli embrioni nella speranza di conferire resistenza all’infezione da Hiv di cui i padri biologici erano portatori. Nacquero due gemelle e nel 2019 una terza: le prime – e per quel che si sa uniche – bambine Crisp. Tale tecnica di modifica del Dna era stata scoperta e messa a punto da Jennifer DouDna ed Emmanuelle Charpentier che per questo sono state insignite del Nobel per la Chimica nel 2020.
Torniamo in Cina dove invece He Jiankui fu immediatamente messo al bando dalla comunità scientifica internazionale. Il neurologo e presidente del comitato etico dell’ Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (Inserm) Hervé Chneiweiss, direttore di ricerca al CNRS (Centre National de la Recherche Scientific) e professore di biologia al Collège de France ebbe a dire: «Ha commesso tre errori principali: un errore scientifico, perché la tecnica non funziona; un errore medico, perché il soggetto non valeva il rischio in cui si è corso; un errore sociale, perché ha infranto tutte le regole e ha ignorato il dibattito scientifico su eventuali test clinici di modifica del genoma umano».
Qualcun altro paragonò He Jiankui a “Balrog”, un demone del Signore degli Anelli di Tolkien. Le autorità cinesi lo misero agli arresti domiciliari a Shenzhen, per poi condannarlo a tre anni di carcere, per «aver effettuato illegalmente la manipolazione genetica degli embrioni a scopo riproduttivo». Rilasciato nella primavera del 2022, He Jiankui è tornato in un laboratorio nel campus dell’Università di Tecnologia di Wuchang, un istituto privato che accoglie diciottomila studenti a Wuhan, nel centro della Cina. Oggi è impegnato nel trovare la modalità di ingegneria genetica per combattere l’Alzheimer, malattia di cui soffre la madre, partendo da sperimentazioni sui topi.
Non voglio addentrarmi nella vicenda (pare che le bambine stiano bene) ma non è un caso che Mustafa Suleyman (uno dei tre fondatori di DeepMind – oggi Google) nel suo recente libro “The Coming Wave” indichi l’ingegneria genetica come una delle due principali direzioni della prossima onda tecnologica: «La prossima ondata di tecnologia si basa principalmente su due tecnologie in grado di operare sia ai livelli più estesi sia a quelli più granulari: l’intelligenza artificiale e la biologia sintetica».
L’Alzheimer, di cui si sta occupando il dottor He Jiankui, è la settima causa di morte negli Stati Uniti e la modifica di una singola lettera genetica tra le circa tre miliardi che compongono il genoma sarebbe in grado di prevenire la malattia. Lo scorso 21 settembre è stata la Giornata Mondiale dell’Alzheimer: si stima che, in tutto il mondo, ne siano affette diciotto milioni di persone. Numero destinato a triplicarsi entro il 2050. Ma non solo. L’ingegneria dell’editing genetico può rendere più semplice eseguire diagnosi e prevenire malattie, migliorare il gusto e rendere più duraturi i nostri cibi, migliorare la salute degli animali, ottenere colture più resistenti e più forti sia verso agenti patogeni sia contro le crisi climatiche e, infine, trattamenti personalizzati per sconfiggere il cancro.
Al Crisp-Cas9 aggiungiamo la cosiddetta “Riprogrammazione cellulare”. Tecnica che permetterebbe di trasformare ogni cellula del nostro corpo in una cellula staminale pluripotente (iPSC). Questo tipo di cellula staminale ha la capacità di formare qualsiasi altra cellula o tessuto del corpo umano e/o animale. La sua scoperta, avvenuta nel 2006, è dovuta al lavoro degli scienziati Kazutoshi Takahashi e Shinya Yamanaka dell’Università di Kyoto. Quest’ultimo, in particolare, è considerato il padre delle cellule iPS e per questo motivo nel 2012 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Medicina.
La riprogrammazione ha aperto la strada a eccitanti possibilità di ricerca e cura di diverse malattie. Aggiungendo una combinazione di quattro fattori chiave, una cellula della pelle, per esempio, può essere trasformata in una iPSC, che può quindi essere utilizzata per formare cellule epatiche, polmonari o cerebrali in una piastra di coltura.
Ma c’è dell’altro. In un sondaggio pubblicato su Science nel febbraio 2023 è emerso che un americano su quattro altererebbe il Dna di un embrione se migliorasse le prospettive della loro futura prole di entrare in un college di alto livello. In buona sostanza una percentuale sostanziale di americani sarebbe disposta a utilizzare una tecnologia estremamente controversa, in gran parte non regolamentata e, nel caso dell’editing genetico, vietata in molti paesi, se questa desse ai loro figli un vantaggio competitivo.
I ricercatori di Geisinger, dell’Università della California del Sud, dell’Ucla, del National Bureau of Economic Research e dell’Università di Harvard che hanno condotto tale sondaggio negli Stati Uniti su quasi settemila persone, affermano che coloro che hanno un livello di istruzione superiore appaiono più interessati a utilizzare screening genetici e tecniche embrionali sulla loro futura prole, commentando che tale tendenza «aumenterebbe il rischio di esacerbare le disuguaglianze esistenti». Non manca il business ovviamente come le diverse bio-banche che sequenziano genomi (una nel Regno Unito ha terminato il sequenziamento dei genomi di circa cinquecentomila volontari), e non mancano le cause legali a livello internazionale per la tutela dei brevetti.
Ma dalla Terra spostiamoci su Marte (o sulla Luna). Una ricerca sugli astronauti gemelli monozigoti Mark e Scott Kelly ha rivelato una serie di cambiamenti genetici che si verificano quando una persona trascorre un anno nello spazio. Quindi qualcuno sta pensando che, una volta studiati e compresi tutti gli impatti sulla salute dei viaggi spaziali, si potrebbe modificare i genomi degli astronauti prima del lancio per offrire loro la migliore protezione. Alcuni hanno persino suggerito che questo potrebbe portare alla creazione di una specie completamente nuova: l’Homo spatialis.
Per il momento, questo approccio non è un’opzione: attualmente non ci sono terapie genetiche progettate per le persone che intraprendono viaggi spaziali. Ma un giorno «potrebbe essere nel migliore interesse degli astronauti sottoporsi a qualche intervento genetico, come l’editing genetico, per salvaguardarli», sostiene la professoressa Rosario Isasi, studiosa di bioetica dell’Università di Miami.
Kári Stefánsson è un neurologo islandese, fondatore nel 1998 della azienda biofarmaceutica “deCODE genetics” con sede a Reykjavík, società che ottenne il via libera dal governo per esaminare cartelle cliniche e Dna dei cittadini islandesi, formando così uno dei primi grandi database genetici nazionali. Stefansson in una chiacchierata dello scorso anno con Antonio Regalado, senior editor della Mit Technology Review ha rimarcato: «Non stai solo influenzando la persona, ma tutti i suoi discendenti per sempre. Queste sono mutazioni che consentirebbero un’ulteriore selezione e un’ulteriore evoluzione; quindi, tutto questo sta iniziando a riguardare l’essenza di ciò che siamo come specie».
Questo è il punto fondamentale. La velocità e la magnitudo dell’avanzamento tecnologico (in questo caso ma non solo) ci pone davanti a provocazioni esistenziali, culturali e filosofiche. Il destino ancora una volta è nelle nostre mani e più che mai nei nostri cuori pensanti.