«Credo sia un diritto inalienabile dell’uomo poter dire che una statua è brutta. E invece mi hanno detto di no». A dirlo, durante l’ultimo panel de Linkiesta Festival, è Simone Lenzi, ex assessore alla Cultura di Livorno, costretto a dimettersi dopo aver postato alcuni tweet «scandalosi».
Sul palco dei Bagni Misteriosi, insieme a Assia Neumann Dayan, Lenzi accende i riflettori sul dibattito riguardante la libertà di espressione e i limiti della politica contemporanea. Lenzi ripercorre le vicende che lo hanno portato alle dimissioni, al termine di un mandato quinquennale come assessore.
Due tweet ritenuti «scandalosi» sono bastati per decretare la sua uscita di scena: il primo, un commento ironico sulle ventotto identità di genere; il secondo, una critica estetica a una statua esposta alla Biennale di Venezia, definita «brutta». Una valutazione che, secondo Lenzi, è stata mal interpretata e che lo ha portato a essere accusato di transfobia e omofobia. Due accuse totalmente «fuori luogo»: «Mi hanno detto che, per realizzare la statua, l’artista aveva fatto un calco. Quindi, dire che la statua è brutta significava parlar male del movimento Lgbtq+. Ma io ho fatto l’assessore per cinque anni e ho sempre votato le delibere che riguardavano il mondo Lgbtq+. Non mi sono astenuto, né ho mai fatto in modo che non passassero».
Lenzi si è soffermato sull’importanza dell’autonomia dell’arte: «Nel tweet dicevo che non siamo borghesi scandalizzati, ma annoiati: esprimevo fastidio e noia per l’arte didascalica, che ti dice come la devi pensare su qualcosa. Ho sempre creduto che il compito dell’arte fosse quello di permetterti di farti delle domande, di lasciare spazio all’immaginazione – spiega lo scrittore –. L’arte funziona quando l’artista riesce a fare un passo indietro rispetto all’io e lascia uno spazio sufficiente a chi ne fruisce per metterci del suo. La mia era un’opinione estetologica, forse contestabile, ma che forse non vale un licenziamento. E invece il Comune di Livorno mi ha lasciato in mezzo alla strada nel giro di quarantotto ore», prosegue lo scrittore, definendo la sua defenestrazione «un atto di turbo-stalinismo».
L’esperienza personale di Lenzi si inserisce in un fenomeno più ampio: la crescente polarizzazione del dibattito pubblico e l’uso strumentale dei temi divisivi. «Venuti meno quei principi universalistici che bene o male facevano da cappello e sotto ai quali c’era spazio di libertà, quello che rimasto è il tribalismo: un sistema frammentato in cui ogni tribù cerca il suo capro espiatorio». E i social media, secondo Lenzi, non fanno che esasperare questa dinamica: «Funzionano con l’algoritmo della consolazione, che ti chiude in una bolla e ti porta a credere che il mondo la pensi come te. Ma non è vero». Questo meccanismo, ha aggiunto, favorisce la polarizzazione e indebolisce la politica reale, ridotta a un esercizio di fidelizzazione delle bolle digitali.
Lenzi ha poi chiuso il suo intervento con una riflessione sulla politica italiana: «Quella di parlare di temi divisivi, come la Gpa (Gestazione per altri), è una scelta scellerata e consapevole parte della politica, che serve ad allontanare al gente dal voto. È più facile decidere cosa la gente ha nelle mutande, piuttosto che impegnarsi a capire cosa ha nel portafoglio. Parlare della riforma del sistema pensionistico è più difficile e occorrerebbe fare delle scelte importanti, ma nessuno ha il consenso per farlo, e quindi si preferisce parlare di altro – commenta Lenzi –. Meno gente va a votare e più si consolidano gli assetti di potere. Ciascuno quindi ha il controllo del suo elettorato. Questa radicalizzazione fa sì che di fatto non si scelga nulla e che la politica non incida mai davvero nella vita delle persone».