Tirana avantiLa favola di Anita Likmeta, e il soffitto di cristallo

Nella terza giornata de Linkiesta Festival, la scrittrice e imprenditrice nata a Durazzo e cresciuta in Italia spiega come ha superato gli stereotipi e pregiudizi sul suo genere e sulle sue origini: «Le mie eroine non hanno nomi: sono donne che, pur nella difficoltà, sacrificavano tutto per i propri figli, magari portando un giubbotto con la cerniera rotta e facendo finta che andasse tutto bene»

Lorenzo Ceva Valla

Albania è una parola che nell’immaginario collettivo italiano ha assunto nel tempo tante sfumature, cambiando allo stesso ritmo della società italiana. Durante la Guerra Fredda, è stato sinonimo di comunismo duro, puro, ortodosso, ammantato di mistero e visto con una certa diffidenza dagli occidentali. Poi Albania è diventata sinonimo di speranza: tutti ricordiamo le immagini dei tanti albanesi stipati nelle navi che salpavano l’Adriatico in cerca di una nuova vita in Italia, la loro America. Albania è stata per breve tempo anche sinonimo di criminalità, come spesso succede quando la politica non accompagna nel giusto modo l’incontro tra culture in apparenza diverse, ma più simili di quanto si possa credere. Negli ultimi anni però la parola Albania ha regalato nuove e importanti sfumature: un esempio eccelso di integrazione umana ed economica, una meta turistica inaspettata, un paese alleato e amico che con pazienza diplomatica ha assecondato la bislacca e incostituzionale iniziativa del governo Meloni di spendere centinaia di milioni di euro per mandare lì una decina di migranti, salvo poi essere costretta a riportarli indietro. 

Anita Likmeta, nata a Durazzo durante il regime comunista di Enver Hoxha e arrivata in Italia nel 1997 è una persona che per tutta la sua vita ha vissuto questa doppia anima albanese e italiana e che meglio di tutti può spiegarci l’incontro-scontro tra queste due culture. Oggi è diventata una stimata imprenditrice nel settore digitale, fondatrice e Ceo della holding Exegesis Srl, con partecipazioni in varie startup e PMI di successo. Nel 2021 è stata riconosciuta tra le “Inspiring 50” in Europa secondo il Corriere della Sera.  Nel 2024 ha pubblicato il suo primo romanzo, “Le favole del comunismo”, edito da Marsilio, in cui racconta con una spietata allegria la sua infanzia in Albania, facendoci capire molte cose sulle conseguenze politiche e umanitarie di quel regime.

Durante la terza giornata de Linkiesta Festival, ospite del panel “Le donne albanesi”, moderato da Andrea Fioravanti, Likmeta ha raccontato la sua storia di successo, spiegando che durante la sua crescita personale non ha avuto punti di riferimento, né storici, né modelli da emulare: «Durante il comunismo in Albania non è stato concesso alle donne di diventare figure centrali. Il regime si vantava di metterle al centro, di emanciparle, ma era solo una narrazione di facciata. Prendiamo l’esempio di Nexhmije Hoxha, moglie del dittatore Enver Hoxha: anche lei, pur avendo avuto un ruolo prominente nella Resistenza e nelle istituzioni, è rimasta schiacciata sotto il patriarcato brutale del regime» Questo mito dell’emancipazione femminile secondo Likmeta si è infranto nelle storie di molte donne albanesi. «Le donne lavoravano duramente, ma erano sempre subordinate, mai protagoniste. E questo peso lo hanno portato con sé per decenni».

Sul palco dei Bagni Misteriosi di Milano, Likmeta ha raccontato con coraggiosa sincerità il peso dello stigma di essere albanese negli anni Novanta e Duemila in Italia. «Per anni ho vissuto con un senso di colpa profondissimo. Non era un problema di chi ero, ma da dove venivo. Essere albanese era un marchio terribile. Speravo che i miei tratti potessero ingannare le persone: andava bene qualsiasi origine – russa, ucraina – ma non albanese». Nella prima fase della sua carriera lavorativa non avrebbe mai pensato di fare l’imprenditrice. «Non mi piaceva nemmeno la parola, la trovavo fredda, calcolatrice, distante. Io volevo accumulare titoli, costruire una carriera accademica. Eppure, dopo aver inviato mille e settanta curriculum senza risposta, ho capito che dovevo sopravvivere». Dopo lavori come cameriera e hostess, sfruttando la conoscenza di sei lingue, Likmeta si è reinventata, creandosi un lavoro da sola. «Non avevo idea di come funzionasse l’economia, né sapevo cosa fosse una startup. Ma con il tempo ho studiato a fondo il modello americano, riuscendo a costruire una solida holding, che oggi partecipa in oltre venti aziende»

Riflettendo sul progresso in Albania, Likmeta sottolinea come oggi sia una prateria piena di opportunità, ma ancora in transizione «Ho portato una mia amica a pranzo e lei si lamentava dicendomi di aver comprato una seconda casa a Golem. Proprio in quel momento ho pensato quanto l’Albania di oggi sia davvero democratica, perché c’è dissenso o almeno la possibilità di criticare lo status quo. Ed è nella capacità di lamentarsi che vedo il progresso».

Secondo Likmeta, l’Albania del 2024 vive uno straordinario paradosso: «Si può sbagliare anche di più rispetto ad altri paesi, perché c’è tutto da costruire. Questo rende più semplice intraprendere nuove strade.La possibilità di sbagliare e migliorare è il motore del cambiamento. Questo, per me, è fondamentale. E va dato atto al premier Edi Rama di aver fatto tanto: al momento, l’Albania ha il numero più alto di donne al governo e in generale le donne albanesi stanno contribuendo alla crescita del paese, che sta vivendo un boom economico simile all’Italia degli anni Sessanta. Certo, ci sarà un rallentamento, ma ora è un momento di grande fermento».

Likmeta ha spiegato al pubblico de Linkiesta Festival di non avere modelli predefiniti a cui ispirarsi. «Il modello si costruisce ogni giorno. Le mie eroine non hanno nomi: sono donne che, pur nella difficoltà, sacrificavano tutto per i propri figli, magari portando un giubbotto con la cerniera rotta e facendo finta che andasse tutto bene».

Guardando al panorama globale, La scrittrice e imprenditrice italo-albanese ha riflettuto sulle sfide delle donne al di là e al di qua del “muro invisibile” che divide l’Occidente dagli altri paesi. «Vivo con ansia ciò che accade in Ucraina – anche perché ho una sorellina ucraina – e in Georgia. Mi fa male pensare che in Occidente ci sia un femminismo che, per certi versi, si permette il lusso di non affrontare queste realtà. Credo che si sia perso per strada. Qui c’è una libertà tale che si gioca con i temi, si filosofeggia, ma manca il contatto con la realtà concreta. Per me, è fondamentale che il femminismo non perda di vista le difficoltà reali delle donne».

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