Polo nordIl complicato futuro dei liberaldemocratici italiani

Nella seconda giornata de Linkiesta Festival, sul palco dei Bagni Misteriosi a Milano Ivan Scalfarotto, Luigi Marattin, Alessandro Tommasi e Giorgio Gori discutono del futuro dell’area politica liberaldemocratica

Lorenzo Ceva Valla

Da alcuni mesi nell’opinione pubblica italiana non si parla più di terzo polo e liberaldemocratici, come se quellarea politica fosse irrimediabilmente scomparsa per sempre dopo il fallimento alle recenti elezioni europee in cui nessuno dei partiti cosiddetti riformisti ha raggiunto la soglia del quattro per cento per avere un seggio al Parlamento Ue. Partiamo dalle certezze: Matteo Renzi e Carlo Calenda non creeranno insieme un partito liberaldemocratico, Italia Viva e Azione non hanno ottenuto percentuali rassicuranti alle recenti elezioni regionali, Luigi Marattin è uscito da Italia Viva per creare una nuova area politica, Orizzonti Liberali, e nel Partito democratico sono rimasti solo alcuni politici a tenere la barra dritta su temi cruciali, come per esempio il sostegno all’Ucraina che si difende dalla invasione russa: Pina Picierno, Giorgio Gori, Lia Quartapelle, Filippo Sensi e Lorenzo Guerini, per fare qualche nome.

Lo abbiamo capito: i liberali hanno perso le elezioni, ma che fare ora? Rassegnarsi per sempre al bipopulismo o provare a intraprendere nuove strade? Una risposta provano a darla alcuni degli esponenti politici dell’area riformista sul palco de Linkiesta Festival ai Bagni Misteriosi di Milano: Ivan Scalfarotto (Italia Viva), Giorgio Gori (Pd) Luigi Marattin (Orizzonti Liberali) e Alessandro Tommasi (Nos). Questi ultimi, Tommasi e Marattin partecipano nel fine setimana a una due giorni a Milano organizzata da Orizzonti Liberali dal titolo: “Il coraggio di partire”, per provare (di nuovo) a creare davvero un partito liberaldemocratico, dopo l’esperimento fallito dell’unione tra Azione e Italia Viva. 

Secondo Marattin il problema principale da cui partire è quello del sistema partitico: «Questo Paese ha sempre avuto almeno cinque culture politiche: quella comunista, quella socialista, quella laico-liberale, quella cattolico-popolare e quella di destra sociale. Ma ci siamo fissati con l’idea che siamo un Paese anglosassone, con due partiti da duecento anni e un sistema elettorale maggioritario che, tra l’altro, non abbiamo mai adottato. Il problema è che oggi entrambe le coalizioni inseguono gli elettori estremi: Schlein e Conte da una parte, Meloni e Salvini dall’altra. Non c’è più attrazione per l’elettore mediano. Entrambe queste coalizioni, invece di affrontare le vere sfide del Paese, offrono solo slogan».

Per il fondatore di Orizzonti Liberali, quello che manca è un partito politico con il coraggio di fare un’analisi seria, di ammettere perché l’Italia è ferma, e di costruire su questa analisi un’offerta politica credibile, invece di fare alleanze contro qualcuno o qualcosa bisognerebbe spiegare agli elettori come rendere più efficiente lo Stato, come ridurre la spesa pubblica e fiscale, come liberalizzare i mercati e la concorrenza, professando un atlantismo senza compromessi al ribasso. «La sinistra pensa che non cresciamo più perché lo Stato non spende abbastanza. La destra, invece, sostiene che non cresciamo perché abbiamo integrato i mercati. Ma è il resto del mondo che si è integrato, e solo l’Italia è rimasta ferma. Già con Walter Veltroni, nel discorso del Lingotto del 2008, si era provato a proporre una visione riformista e liberale. Ma quella linea è stata sistematicamente respinta dal Dna del partito. E non parliamo poi di ciò che è accaduto con Renzi: due volte ha vinto il congresso e due volte quel partito ha considerato il riformismo come un corpo estraneo».

Ivan Scalfarotto invece pensa che il problema non sono i temi, ma di tattica politica: «Abbiamo delle idee chiarissime e condivise, ma ho paura che, nel tentativo di preservare la purezza del nostro messaggio, rischiamo di rimanere per sempre a fare quello che stiamo facendo adesso: testimonianza». Il senatore di Italia Viva ha espresso la propria frustrazione per il fatto di essere all’opposizione e non poter influire sui processi legislativi, osservando nel frattempo l’approvazione di provvedimenti che ritiene sbagliati, come il disegno di legge sulla sicurezza o l’autonomia differenziata. «Io non voglio restare confinato in una torre d’avorio a dire come il mondo dovrebbe essere, lasciando che il mondo resti com’è. Soffro perché vedo voci coraggiose come quelle di Pina Picierno, che si espone quotidianamente e deve affrontare attacchi osceni da parte di putiniani e traditori della patria. Sento che la mia voce e la sua non si sommano, perché stiamo in case politiche separate».

Scalfarotto ribadisce al pubblico de Linkiesta la sua decisione di non tornare in questo Partito democratico a causa della sua posizione giustizialista, confessando di votare sempre contro i dem in Commissione Giustizia, ma questo non gli impedisce di combattere per le sue idee all’interno del campo largo, il tentativo di coalizione con Movimento 5 stelle e Alleanza Verdi e Sinistra. «Con Donald Trump alla Casa Bianca e con la destra al governo, non posso più permettermi l’equidistanza. Anche se Fratoianni e Riccardi sono lontanissimi da me, so che better the devil you know (meglio il diavolo che conosci, ndr). Se devo scegliere, tra Fratoianni e figure come Salvini, non ho dubbi. Io credo che sia civile poter stare in una coalizione, portare avanti un programma, e farlo in libertà e lealtà». 

Per Scalfarotto in una coalizione, è possibile lavorare per fare massa critica e mettere in minoranza gli alleati estremisti: «Guardate cosa accade nella destra: Salvini, sul piano della politica estera, è in minoranza e bloccato dagli altri. Dobbiamo fare la stessa cosa: costruire una coalizione in cui le nostre idee possano diventare maggioritarie. Se restiamo separati, restiamo piccoli. Ma se uniamo le nostre forze, se troviamo una stanza nella quale lavorare da protagonisti, possiamo fare in modo che le nostre idee liberal-democratiche diventino trainanti. Altrimenti, rischiamo di lasciare le cose come stanno, mentre noi perdiamo tempo a condurre meravigliose battaglie di testimonianza».

Sul palco dei Bagni Misteriosi è intervenuto anche l’ex sindaco di Bergamo e ora eurodeputato del Pd Giorgio Gori, sostenendo che se tutti i politici che hanno lasciato il Partito democratico per formare nuovi soggetti politici fossero rimasti con i dem, probabilmente il congresso sarebbe stato vinto da una linea liberal-socialista, dando vita a un partito diverso, più aperto e competitivo. «Scalfarotto rappresenterebbe il PD in Commissione Giustizia, Marattin lo rappresenterebbe sui temi dell’economia e della concorrenza, e forse non avremmo incertezze in politica estera e sull’Ucraina». Un Partito democratico con una forte componente liberal-socialista potrebbe attrarre un elettorato oggi disperso e diventare un grande partito capace di concorrere al governo del Paese. Invece, l’attuale frammentazione porta a discutere di «cespugli e cespuglietti» condannati all’opposizione.

L’eurodeputato ha poi espresso apprezzamento per la posizione di Ivan Scalfarotto e Matteo Renzi, che, pur avendo scelto di lasciare il Pd, continuano a considerare l’importanza di stare in un perimetro comune per fare politica e incidere. «Quella coalizione avrà senso se la componente liberal-socialista sarà forte e le posizioni di Fratoianni e Conte diventeranno minoritarie», ribadendo la sua convinzione che per cambiare il Paese servano grandi partiti, non piccoli soggetti politici personali che sono danneggiati in partenza dalla legge elettorale italiana: «Nelle ultime elezioni, il centrodestra ha preso centoventuno deputati nella quota maggioritaria, mentre il centrosinistra solo dodici. O sei competitivo anche in quel pezzo, entrando in una coalizione, o perdi e fai opposizione. Alla fine anche Macron in Francia ha dovuto trattare con altre forze politiche per governare. In politica, prima o poi, bisogna avere a che fare con gli altri; il Paese si governa con il cinquantuno per cento, possibilmente con una maggioranza più estesa».

Gori ha ammesso le difficoltà di portare avanti idee liberal-democratiche all’interno del Pd, ma ha sottolineato l’importanza di essere più coraggiosi e meno timidi nel farlo, elogiando la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno per il suo approccio deciso nel dibattito interno, invitando i suoi colleghi a fare altrettanto: «Non tutti stiamo interpretando il ruolo di minoranza con la stessa trasparenza e sincerità rispetto alle nostre idee. Abbiamo il dovere di dare visibilità alle idee che esistono nel Pd, ma che spesso restano nascoste»È intervenuto anche il leader di Nos Alessandro Tommasi, raccontando come negli ultimi mesi la politica gli ha insegnato il valore del “non fare,” ma precisando che non sempre ha applicato questa lezione e anzi cerca di  sfidare questo status quo e partire con coraggio, rifiutando l’idea che i liberali abbiano perso definitivamente. Secondo Tommasi non sono le idee ad aver fallito, ma le tattiche, che hanno portato a un eccesso di calcoli e compromessi, creando cortocircuiti politici.

Nonostante la rapidità dei cicli di comunicazione e l’accelerazione imposta dai social, c’è ancora tempo per costruire qualcosa di solido, anche se molte persone hanno perso fiducia dopo aver creduto in vari progetti politici. «Per riconquistare il cuore di chi ha creduto tante volte e oggi ha perso slancio, serve mettere i contenuti al centro, non la leadership né la tattica». Per farlo, secondo Tommasi bisogna rompere con la logica delle scelte binarie, spesso ridotte a decidere tra alleanze scomode con Roberto Vannacci o Nicola Fratoianni. «Possiamo costruire un’opzione C, ma per ottenere risultati diversi bisogna cambiare metodo, parole e approccio, anziché ripetere sempre gli stessi schemi con le stesse persone. Guardiamo a chi non vota, ricostruiamo, riconquistiamo fiducia e allarghiamo il nostro orizzonte non pensando solo allo status quo».

Per confutare l’idea dell’indistruttibilità del bipolarismo elettorale, Marattin ha citato l’esempio del Movimento 5 Stelle che con un programma confuso e populista è riuscito nel 2013 e nel 2018 a fare a pezzi il bipolarismo, raggiungendo il venticinque per cento e poi il trentatré per cento dei consensi, attraendo non votanti e persone insoddisfatte, dimostrando che l’attuale legge elettorale non rappresenta una barriera insormontabile. 

Davanti al pubblico de Linkiesta, Marattin ha rifettuto sugli errori passati, definendo il fallimento del Terzo Polo un errore politico grave, spiegando che se quella coalizione fosse rimasta unita avrebbe potuto davvero cambiare il panorama politico italiano, proponendo una comunità basata su idee condivise piuttosto che personalismi. E sul suo nuovo soggetto politico chiarisce: «Se avremo successo o meno, lo vedremo col tempo».

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