Sono originario di Bari e quando un paio di anni fa amici e conoscenti hanno cominciato a parlarmi in modo entusiasta degli spaghetti all’assassina, presentandomeli come un piatto della tradizione, ho avvertito il senso di colpa di chi, andato via dalla propria terra, ha lasciato indietro ogni memoria. Anche culinaria.
Ricordavo le mani di mia nonna, che alla luce della domenica mattina preparavano le orecchiette nel salone di casa, ma per quanto mi sforzassi gli spaghetti all’assassina erano per me una tradizione sconosciuta. Poi ho scoperto che questa ricetta – in cui gli spaghetti s’intrecciano come un filo spinato dorato, con il peperoncino che miete vittime fra i palati – è divenuto celebre grazie a diversi ingredienti: divulgazione compulsiva da social network, libri, una serie televisiva, una giornalista pugliese che suggerisce il piatto alla produzione del programma della BBC “Stanley Tucci: Searching for Italy”, che porta così l’attore americano nella cucina di un ristorante barese a provarlo, un giornalista del New York Times che guarda la puntata e, mentre è in vacanza in Italia, decide di fare come Tucci e scriverne in un articolo.
E, prima ancora, grazie a cinque amici che una sera di settembre del 2013 si ritrovano attorno a un tavolo e decidono di istituire l’Accademia dell’Assassina. Un’accademia itinerante, di ristorante in ristorante, per provare questa ricetta ormai fuoriuscita dai menu, che fra storia e mito affonda le sue origini nel 1967, nel ristorante “Al Sorso Preferito” di Bari, avamposto d’altri tempi tra il lungomare e il teatro Petruzzelli, e nell’ispirazione fiammante del cuoco Enzo Francavilla. Ecco come nasce l’invenzione della tradizione, la parabola dell’assassina.
“The killer spaghetti” «Trovai questa cantinella che si chiamava “Al Sorso Preferito”. Ci andava lo spazzino che lasciava la scopa alla porta e si andava a fare il bicchiere di vino. Il “bar degli Eroi”, che era lì vicino, mi prestò quattro tavolini con le sedie ma la gente ancora non entrava. Allora presi una lattina di olio vuota, la aprii e ci misi a bruciare il grasso d’agnello con un ramo di rosmarino e una foglia di alloro. Cominciai a vedere le persone che dall’albergo Astoria, dall’albergo Oriente, in pigiama, venivano a mangiare. Io cucinavo, io servivo, io facevo tutto».
Enzo Francavilla, cantastorie di sé, è un pioniere in occhiali da sole, seduto al posto d’onore del bar sotto casa, a Modugno, all’alba dei novant’anni, che rievoca con voce presente. «Un giorno entrò uno zingaro con un pappagallo in gabbia, l’uccello scappa, non lo troviamo più. Dopo due ore di ricerca, l’uomo mi disse “questa è la tua fortuna, io me ne vado, te lo lascio”. L’uccello non l’ho mai più visto, la fortuna sì. Vennero due napoletani, marito e moglie, oppure amanti, fatti loro. Mi dicono “senta, ci troviamo a Bari e vorremmo mangiare un piatto che non abbiamo mai mangiato”.
Io non avevo nemmeno più una lira perché avevo appena comprato la licenza, così mi girai attorno e vidi un barattolo di pelati che mi faceva l’occhiolino, l’aglio, il diavolicchio e mi misi a fare questi spaghetti. Li misi nell’acqua e, appena si piegarono, li tolsi e li misi nella padella a tostare. Era una di quelle padelle di ferro, come quelle in cui si fanno le focacce, che si lavano solo con un po’ di carta unta di olio, altrimenti si arrugginiscono. La lega di quel metallo ha a che fare con il fuoco. In bocca erano croccanti, né al dente, né cotti.
Quando glieli portai mi raccomandai: “non bevete mentre mangiate sennò vi rovinate il palato”. Quando finirono tornai: “signori io ho fatto il possibile, com’è andata?”. Mi risposero “meravigliosi, però sono assassini”. Da allora si sparse la voce. I carabinieri davanti alla porta ci volevano. Le persone venivano già con la parola in bocca, “ci sono gli spaghetti all’assassina?” Io neanche li avevo scritti sul menu, nemmeno lo tenevo il menu».
La storia diventa passerella di volti noti dell’epoca. Maria Callas, l’astronauta Gagarin, «mi regalò una bottiglia di vodka. La bottiglia ce l’ho ancora, la vodka no. Io avevo il permesso per stare aperto anche la notte perché venivano a mangiare gli artisti dopo aver finito lo spettacolo al Petruzzelli. Finché c’era la lirica, c’ero anche io. Una notte, alle due e mezza, arriva Carlo Dapporto con Ombretta Colli e tutta la compagnia. Io gli dissi “guardi, non ho più niente, sto chiudendo” e lui “come, lei ci manda via? Lei non sa chi sono io!”.
Gli dissi: “io lo so chi è lei, signore. È lei che non sa chi sono io, un povero disgraziato con i piedi insanguinati perché sta in piedi dalle sette del mattino”. Una volta Eduardo De Filippo disse “beh, Vincenzo, cosa ci fai mangiare domani?”. “Commendatore, domani è domenica, devo riposare”. E lui: “no, questo non me lo devi fare, vengo a mangiare a casa tua”. E si presentò a casa». La vita da ristoratore continua in varie forme, la pensione arriva nel 1997 e la ricetta, dopo anni in cui è stata stipata nella credenza del dimenticatoio, torna nei menu. «Mi sono meravigliato che un piatto di spaghetti ha preso questo volo – dice –. A Londra c’è un ristorante che si chiama “Spaghetti House” e sotto l’insegna hanno scritto Killer Spaghetti. «Pulcinella ha gli spaghetti, io ho l’assassina».
Il contratto A raccogliere per primo la testimonianza di Francavilla è stato Felice Giovine, fondatore del Centro Studi Baresi, studioso di storia locale e curatore dell’Archivio delle Tradizioni Popolari Baresi, ereditato dal padre Alfredo. Lo incontro nella sede del centro studi, sulla scrivania sono disposti menu e volantini pubblicitari di ristoranti baresi che non esistono più, nelle fotografie le pietanze sono ritratte in posa con chi le ha preparate, sembrano ancora volersi vendere. Il fumo della sigaretta che Giovine aspira diventa un sipario che si apre: «Eravamo tre giovani universitari e la sera si andava in giro, però prima di andare al cinema o andare a farsi qualche vasca, scoprimmo questo locale e siccome eravamo piuttosto sbarazzini, chiudemmo un contratto con Enzo Francavilla: “Noi veniamo ogni sera, ti diamo 5000 lire e tu ci fai tre assassine e una bottiglia di vino”.
Ci andavamo alle 19:45 perché dopo si creava la coda di gente in attesa e non si spostavano. Erano otto coperti per due fuochi che aveva a disposizione, dove faceva sia lo spaghetto all’assassina che le orecchiette mantecate. La lira era pesante, era una Bari di femmine, champagne e tabarin, di bische dove si andava a perdere patrimoni, al circolo della caccia si giocavano le masserie». Tornando a oggi commenta «Il piatto, se fatto come si deve, è di gran gusto, più ne mangi e più ne vorresti mangiare, anche se alla prima forchettata può risultare una bomba. Per entrare nella tradizione però ci vogliono trecento, quattrocento anni, ci vuole una bibliografia».
Il cuoco è assassino A pagina quindici del romanzo “Spaghetti all’assassina” di Gabriella Genisi, edito nel 2015 per Sonzogno, si legge «la cucina ampia e piastrellata di bianco è perfettamente pulita, a parte tutto quel sangue rappreso vicino al corpo e una padella colma di spaghetti al pomodoro rovesciata per terra. I tegami di alluminio lucidi come specchi e una serie di padelle nere come la pece sono appesi a una rastrelliera alla parete». Qualcuno ha ucciso Colino Stramaglia, fittizio inventore degli spaghetti all’assassina, e il vicequestore Lolita Lobosco deve risolvere il caso, anche il caso di una ricetta a lei fino ad allora sconosciuta.
Quando ci sentiamo, Gabriella Genisi mi confessa subito divertita: «faccio la presentazione del libro a Vietri sul Mare, dopo c’è la cena e tu pensi ti facciano mangiare spaghetti alle vongole, no, “ti abbiamo preparato una sorpresa”, e mi propongono questi pseudo-all’assassina». Mi racconta l’origine del libro. «Siamo nel 2013, in quel periodo si era formato il gruppo Facebook l’ “Accademia dell’Assassina”. A loro va il merito di aver rilanciato il piatto. All’epoca qualche ristorante stava cominciando a inserirla nel menu ma era una ricetta pressoché scomparsa, che veniva preparata su richiesta di qualche cliente d’antan. Nello stesso periodo impazzavano in televisione i cuochi, opinionisti di ogni cosa, con atteggiamenti da divi. Mi urtavano e avevo deciso che nel mio prossimo libro ne avrei fatto morire uno. Una sera ero fuori a cena con un’amica, stavamo mangiando proprio un piatto di spaghetti all’assassina e la mia amica disse «perché non lo intitoli così?».