Tra tutte le idee di libro che sono troppo pigra per scrivere, o che non trovo il tempo di scrivere, o che scarto per i milioni di ragioni per cui chiunque faccia il mestiere di scrivere scarti idee, ce n’è una sola che sarebbe un successo certissimo e alla quale penso da una ventina d’anni. Una guida ai bar e ai ristoranti che si concentri sulle cose davvero importanti: il funzionamento del wifi, la presenza di prese elettriche vicino ai tavoli, e – elemento più importante – la pulizia dei bagni.
Esercito la gratitudine con moderazione, ma sono grata quanto a quasi nessun altro alla tizia che la sera del mio compleanno, un mese fa, in un ristorante in Sardegna, si è offerta di andare a fare pipì per prima. Mi scappava tantissimo, ma sono così schifiltosa dei bagni pubblici che, pur di non entrare in uno a tasso d’igiene ignota, ero disposta a farmi esplodere la vescica o ad andare nel parcheggio e accovacciarmi a farla dietro una macchina (non sarebbe stata la prima volta: è uno dei moltissimi vantaggi del non essere famosa, poter pisciare per strada senza che nessuno si venda la foto).
La tizia è andata, è tornata al tavolo garantendo un giudizio a quattro stelle, io sono andata un po’ sospettosa perché erano pur sempre quattro stelle e non cinque, e invece il bagno era pulitissimo. Certo, avevo i pantaloni, che come sa chiunque abbia visto “Curb your enthusiasm” rappresentano un problema: se sfiorano il pavimento d’un bagno pubblico poi devi buttarli, non c’è lavasecco che basti.
Ma sono pur sempre una femmina, temprata da decenni di mestruo e relative acrobazie, e so fare pipì senza sfiorare la tavoletta e al contempo tenendo sollevati i lembi dei pantaloni acciocché non tocchino il pavimento. Quando parliamo della superiorità femminile, è perché la sappiamo temprata da una vita a non poter pisciare in piedi.
Quella guida che m’avrebbe fatto vendere più di JK Rowling non l’ho mai scritta perché, se si sparge la voce che il tal bar ha la pulizia del bagno programmata ogni ora e quindi lo trovi sempre più pulito di quello di casa tua, si riempie di gente che me lo sporca, e quando passo per quel quartiere poi non ho più il mio cesso lindo di riferimento; se si viene a sapere che il tal hotel a cinque stelle ha in fondo alla hall un bagno strepitoso con piastrelle stupendissime e creme per le mani costosissime, poi è un attimo che c’è il pellegrinaggio da autoscatti e quelli dell’albergo iniziano a fermare le non ospiti come me che passano di lì solo per le minzioni.
Sì, viaggio in executive per i tramezzini di Cracco, ma viaggio in executive anche per avere abbastanza punti sulla cartafreccia da essere sempre in fascia “oro”, il che significa poter entrare nelle sale d’attesa anche quando non eri in executive, anche quando eri su un regionale sul quale non pisceresti neanche se l’alternativa fosse un’ambulanza per l’esplosione della vescica. Arrivi in stazione, e puoi pisciare nei bagni (sempre lindissimi, chiunque critichi Trenitalia non avrà il mio appoggio in nome della pulizia di quei bagni) della sala Freccia. Per la verità uso il loro gabinetto anche quando vengo non da regionali: i bagni dei Frecciarossa mi fanno schifo quanto quelli delle littorine.
L’anno scorso a Heathrow volevo imbottirmi di tritolo e farmi esplodere negli uffici British Airways perché, all’arrivo, la tizia della lounge mi ha detto che non potevo entrare: la sala d’attesa degli arrivi è solo per chi viene dagli intercontinentali, mica per chi fa Bologna-Londra. E io, che me la sono tenuta tutto il volo perché i bagni degli aerei mi fanno orrore, ora dove faccio pipì?, ho domandato stravolta. Ci sono tanti bagni pubblici in aeroporto, ha risposto quella stronza: come fosse normale, come io pagassi la prima classe per un volo d’un’ora per poi smutandarmi in un gabinetto frequentato da poveri.
L’altro giorno mi è comparso su Instagram un biondino di cui non ricordo il nome, un comico italiano che si presenta con «sono un ragazzo trans». Prosegue dicendo qualcosa come «vi starete chiedendo se ho il cazzo», e invitandoci a considerare quanto siamo malati di mente a interrogarci sul contenuto delle mutande di chi ci sta di fronte.
È una notazione suggestiva e quindi efficace, ma senza nessuna solidità, questa di dare del pervertito a chi s’interroghi sul contenuto delle mutande di chi ha i baffi e il rossetto. Quando i transessuali erano transessuali, quando la disforia di genere era una cosa seria e non affare di «mi metto i tacchi ma mi tengo il cazzo perché questa è la mia perversione sessuale e se vuoi sembrare una persona perbene non devi trattarla come una perversione sessuale ma come una serissima questione politica», allora nessuno s’interrogava sul contenuto delle mutande di nessuno.
Si capiva quali erano quelli con la gonna e il cazzo, li chiamavamo con un nome sensato, «travestiti», le parole erano fatte per capirsi, e francamente non so in che bagni andassero i travestiti perché avevamo da far cose più serie che occuparci delle perversioni sessuali altrui e di come influissero sul dover fare pipì quand’eri in giro.
Adesso che tutto è opposti deliri, da una parte quelle che «certo che un uomo può avere le mestruazioni», e dall’altra quelle che «neanche se ti tagli il cazzo sei una donna», da una parte quelle che invece di dire «donne» dicono «corpi con utero» (Carlotta Vagnoli, dico a te: ma seriamente?), dall’altra quelle che riterrebbero abusiva pure Eva Robin’s, più femminile di me e di loro, adesso dobbiamo occuparci di bagni da mane a sera, e non per cose serie quali segnalarne l’igiene.
Sarah McBride ha il cazzo? È impossibile saperlo, perché nessuno vuole sentirsi dare del pervertito dai comici ma pure dalle istituzioni, e quindi nessun giornalista glielo chiede. Da quando le parole non servono più per capirsi ma per far sentire coccolato chi se ne usiamo di troppo precise ci resta male, nessun intervistatore della prima deputata trans degli Stati Uniti ritiene di chiederle se pisci in piedi. L’avrà scritto nella sua autobiografia, con prefazione di Joe Biden? Ah, saperlo: di sicuro i giornali americani non lo riportano.
Fatto sta che McBride viene eletta, e – coincidenza? – una deputata repubblicana, Nancy Mace, presenta una legge per cui l’ingresso ai bagni del Congresso è consentito solo a chi appartiene al sesso biologico cui sono destinati quei bagni. Naturalmente i toni, in questo dibattito sui cessi che è poderosa allegoria d’una società determinata a occuparsi solo di puttanate, diventano subito da melodramma.
Da una parte la Ocasio-Cortez che dice che se passa questa legge ci saranno ispettori che controllano il contenuto delle mutande a qualunque donna coi pantaloni per verificare non sia un uomo (io controllerei prima quelle con la gonna, onorevole: ho come l’impressione che nessun uomo che si percepisce donna si metta i pantaloni, i cliché della femminilità sono un po’ lo scopo del gioco).
Dall’altra quelle che raccontano storie strazianti di aborti spontanei in bagni pubblici e le altre donne mi hanno aiutato perché erano vere donne ma se ci fosse stato un uomo con la gonna chissà cosa sarebbe successo. Le storie normali, per questo come ormai per ogni tema, sono abolite dal dibattito pubblico: non sono abbastanza simboliche per la nostra frastornata amigdala.
Io che sono una persona pratica penso che, essendo McBride un maschio che si percepisce femmina e non viceversa, non ha il problema del mestruo, il che già riduce di moltissimo il bisogno di bagni pubblici. Se poi il bigolo se l’è tagliato, cosa che non le domandiamo per discrezione (caratteristica precipua del giornalismo), passerà le ispezioni immaginate dalla Ocasio-Cortez; se no, può pisciare in piedi per strada (come fanno anche le più spericolate di noi portatrici di vagina schifiltose dei bagni pubblici).
C’è un problema che mi pare sia più sensato di quello immaginato dalla Ocasio-Cortez. Se sei un uomo vestito da donna, e non puoi andare nei bagni delle donne perché le spaventi, forse non puoi andare neanche in quelli degli uomini perché loro spaventano te. Stiamo parlando di un ambiente più tutelato di quello d’un bagno aeroportuale o d’un bar – non credo che nei bagni del Congresso americano ci sarà una deputata con pisello che molesta le deputate con vagina, né che ci possano essere dei deputati con pisello che riempiono di botte l’uomo vestito da donna nei loro bagni – ma comunque è un problema.
Solo che non è un problema creato da Nancy Mace: è un problema creato da quel brodo di coltura che ha ritenuto fosse più semplice ed economico dire alle persone che sono maschi o femmine o elicotteri o libellule o quel che gli va di percepirsi, invece di garantire loro pensioni o assistenza sanitaria. Che ha preferito la rivoluzione delle percezioni alle riforme economiche, perché era più facile, e a costo quasi zero.
Rivoluzione delle percezioni che è stata, per un po’, popolare come lo sono le novità sbrilluccicanti. Adesso meno. Kamala Harris si è, durante la campagna elettorale, tenuta alla larga dal tema transgender che era stato prioritario all’inizio dell’amministrazione Biden, e neanche i più fanatici ipotizzano abbia perso per quello. Ieri Hbo, che si accinge a fare la serie da “Harry Potter”, ha detto che JK Rowling ha tutto il diritto di pensarla come vuole sul tema; un comunicato stampa che due o tre anni fa sarebbe stato impensabile: troppo il terrore di sentirsi dire “transfobico”.
Ora lo sbrilluccichio si è opacizzato, abbiamo ancora paura di farci dire “boomer” ma non di dire che in effetti l’idea che gli uomini restassero incinti dell’amministrazione Biden non era molto più razionale delle idee antivaccinare dell’amministrazione Trump. Ci rimane in eredità, per chi intanto aveva aderito a quella religione lì, quel problemuccio: quando vai al ristorante, poi che bagno ti tocca? (La mia risposta sarebbe sempre e solo: quello meno zozzo, per favore).