Ancora l’umanesimo? Lo sentiamo spesso chiamare in causa nel vortice di affermazioni, asseverazioni, prospezioni entro cui si avvolge il discorso pubblico: spunto per molteplici dispute su cos’è, cosa è stato e cosa può essere; oggetto di rivendicazioni, riproposte, possibili varianti, come di condanne, con carico di eterogenee malefatte, con certificazioni di morte, disegni di antiumanesimo e approdi verso il post umano e l’oltreumano. Sul piano dell’educazione e dell’insegnamento, che copre lo spazio sociale più ampio e tocca la vita di gran parte delle famiglie, è da tempo in questione il ruolo e destino delle discipline umanistiche, considerate perlopiù come ostacolo di fronte al necessario dominio dei saperi scientifici e tecnologici (riassunto col corrente acronimo Stem, Science, Technology, Engineering and Mathematics), mentre comunque non manca chi vede in esse un valido complemento educativo, necessario supporto estetico-emozionale.
L’attuale (disordinato) ordine tecnologico, già con l’avvento dell’informatica e del pensiero computazionale, ha dato una spinta determinante a un più congruente antiumanesimo, che oggi domina l’orizzonte con aspetti molteplici, riconducibili a due versanti diversi.
Da una parte c’è chi si affida automaticamente a un’evoluzione illimitata della tecnologia e vi vede fiduciosamente nuove possibilità e nuove acquisizioni per l’umanità o per meglio dire per la sua parte privilegiata, per chi si trova in condizione di fruire dei sempre più sorprendenti effetti di questo sviluppo, convinto di essere parte di un mondo che continua a procedere in avanti (è quel progressismo cieco, quello spontaneo affidamento ai vantaggi della tecnologia, in cui si riconoscono gran parte dei popoli dell’Occidente, senso comune dei media e dell’economia); in questo ambito si collocano le bislacche utopie che, già al primo avvento dell’informatica e della rete, hanno preteso di scorgere nella permutabilità e moltiplicazione delle scritture un’uscita liberatrice dalla fissità dell’orizzonte gutenberghiano, illimitata espansione democratica dei linguaggi e di tutte le forme culturali.
Dall’altra parte ci sono coloro che negli acquisti della tecnologia individuano un superamento dei limiti fisici e mentali dell’umano, un affidamento di tutte le forme dell’esperienza ai supporti artificiali e tecnici, protesi e congegni che aprono un modo di essere oltreumano e postumano, che sottraggono espressione, comunicazione, gestione dell’esistenza, rapporti sociali ai loro fondamenti naturali e biologici: ci si muove verso un transumanesimo e si delinea una trasformazione del mondo e della vita di relazione, dei dati fisici e psichici, del pensiero e della creatività, nelle direzioni convergenti dell’automatismo tecnico (atti di vita sostituiti e manipolati dalle macchine), della virtualità (vita sospesa in mondi immateriali dalle stesse macchine creati) e di una presunta realtà aumentata.
Ma anche nel continuo inseguimento delle tante nuove acquisizioni della tecnica, su questo sfondo che prospetta un allontanamento da ogni prospettiva umanistica, la resistenza delle discipline umanistiche, specie nell’ambito accademico, tende perlopiù a conformarsi e adattarsi alla situazione, inserendo la propria stessa tradizione e il proprio patrimonio entro il quadro dominante.
Accade spesso (specie nella prospettiva di possibili finanziamenti) che la loro validità e il loro riconoscimento pubblico vengano affidati alla loro disponibilità a commisurarsi all’universo digitale: si va dalla più semplice digitalizzazione dei materiali delle discipline (anche con la costruzione di comunque utilissimi archivi digitali) alla messa in campo di ricerche che fanno leva sulla digitalità, che impostano rilevazioni tecniche, proiezioni e misurazioni, su materiali perlopiù sorti in contesti e in quadri antropologici “altri”, li sottopongono a computazioni, senza preoccuparsi della divaricazione ermeneutica che ne scaturisce.
Siamo nel campo sempre più vasto delle digital humanities, a cui d’altra parte corrisponde un molteplice emergere di proposte di un umanesimo tecnologico, sostenute a più livelli, tra diverse sfumature e accezioni, diverse percezioni storiche e teoriche della stessa categoria di umanesimo. C’è una varia corsa ad appropriarsi dell’etichetta di umanesimo per le prospettive tecnologiche (e ad affidarsi alla tecnologia da parte di studiosi di discipline umanistiche).
A percorrere i siti librari sul web, si possono trovare una serie di titoli che esibiscono gli intercambiabili umanesimo tecnologico e umanesimo digitale, non senza risvolti etici, imprenditoriali, pedagogici, scolastici, che già si stanno facendo carico dell’intelligenza artificiale. Ci sono all’ordine del giorno molti nuovi umanesimi che sono in realtà transumanistici, scesi subito a patti con l’avvolgente antiumanesimo.
Tratto da “Natura vicina e lontana” di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, 400 pagine, 21,85 euro