Quarant’anni fa avevo appena compiuto dodici anni, sapevo tutte le preghiere in latino, la domenica andavo alla messa cantata nella chiesetta annessa alla scuola di preti dove facevo la seconda media, dal lunedì al sabato indossavo un grembiule nero con collettone bianco che era, fino alla terza media, la divisa di quella scuola.
Quarant’anni dopo so ancora le preghiere in latino (quando Calvino diceva che bisogna imparare le poesie a memoria, sapeva quel che diceva); quarant’anni dopo, il figo di quella scuola – che allora faceva il liceo e mi sembrava un uomo – ogni tanto finisce sui rotocalchi popolari; quarant’anni dopo, del bambino di cui ero innamorata non c’è neanche una foto su Google (se mi chiedessero come si riconoscono i veri ricchi, risponderei: così); quarant’anni dopo, la mia risorsa più preziosa è C., l’amico che sa tutto.
Tutte dovremmo avere un amico che sa tutto: che si ricorda la citazione giusta, il riferimento che può tornarti perfetto nel capitolo che stai scrivendo, che non solo è spiritosissimo ma è anche dotato di quella categoria quasi scomparsa che è la cultura generale.
È stato C. che, ieri, mi ha ricordato che “Like a virgin” compiva quarant’anni, e ci sono molti «come siamo vecchie» che ci siamo dette tra coetanee in questi anni, ma nessuno è stato più strabiliante. Quarant’anni dal cercare sul vocabolario «wilderness». Quarant’anni dai braccialetti di caucciù. Quarant’anni dai mezzi guanti di pizzo improvvisamente popolarissimi in piazzola, il mercatino bolognese del sabato mattina dove si compravano le minigonne fatte col punto vita dei Levi’s 501 e sotto attaccato un pezzo di sangallo che arrivava a fil di chiappa.
Quarant’anni da quella mancanza di senso del ridicolo che ti fa squarciagolare che ti senti come una vergine, toccata per la primissima volta, e te lo fa squarciagolare quando vergine lo sei davvero, quando già un limone pare una vetta di dissoluzione, e invece Madonna Ciccone, ventiseienne di provincia che all’epoca aveva probabilmente già visto più cazzi di quanti ne sarebbero toccati a te nei successivi ventisei anni, realizzava quel trucco lì: ti faceva cantare vite non tue.
Non era sola: che si trattasse della “Canzone delle osterie di fuori porta” di Guccini o della “Betty Blue” di Beineix, ci appassionavamo a vite che chissà per quanto tempo ancora non sarebbero state le nostre. Era abbastanza normale, nel Novecento, ed è forse la più clamorosa distanza culturale tra gli anni in cui ci siamo formate noialtre e questi qui: la tensione all’adultità, che in noi era tutto e ci faceva sentire non abbastanza, e in queste ragazzine di oggi è niente.
Un bel po’ di anni fa mi proposero di dirigere Cosmopolitan, che era il giornale che ero cresciuta leggendo. Sia nella sua edizione italiana (negli anni Ottanta ci scriveva Lidia Ravera, forse l’autrice italiana più fondamentale nella mia formazione) che in quella americana: in via dei Mille, quasi di fronte alla bancarella dei guanti di pizzo, c’era un’edicola che aveva i giornali internazionali, e ogni mese io andavo a comprare la mia brava copia del primo giornale in inglese della mia vita.
Ho avuto per anni appeso in cameretta il ritaglio d’un raccontino di Cosmopolitan americano intitolato “Why you’re fat and I’m not”. Erano due donne che in pausa dall’ufficio pranzavano insieme, e una prendeva il dolce e una no, e una parlava solo di quanto ingrassava senza mangiare niente e l’altra no, e una faceva quella che solo-una-insalata ma poi divorava i grissini e l’altra no. Oggi le brigate body positivity chiederebbero l’arresto dell’autrice e il falò delle copie del giornale, ma non è questo il punto.
Il punto è che la me che andava a scuola non conosceva trentenni che pranzassero con le amiche in pausa dall’ufficio: era una cosa esotica, era una cosa distante, e quindi era una cosa che mi affascinava. Cosmopolitan era un giornale che parlava di trentenni per sedurre le tredicenni. Quando incontrai l’editore italiano, scoprii che erano convinti di fare un giornale per lettrici trentenni.
Non solo come pubblico farlocco da vendere agli inserzionisti (se dici che ti leggono le tredicenni, poi chi fa le creme antirughe mica ti compra la pubblicità): erano proprio convinti che un’adulta leggesse un giornale con le cinquantadue posizioni per farlo impazzire. Pensai che erano cretini (tendo a pensarlo spesso dei miei interlocutori).
Molti anni dopo, mi viene il dubbio che avessero ragione, perché in questo secolo le adulte sono così ritardate che potrebbero davvero volersi far dire da un giornale cosa fare a letto, e le tredicenni sono così abituate a sentirsi dire che il loro orizzonte ristretto è quello perfetto da non trovare interessante ambire alla vita di due decenni dopo.
Oggi le madri trentenni fanno i TikTok indignati perché la canzone dell’estate parla di sesso, e mica vorrete sessualizzare le nostre bambine, e le bambine non comprano giornali coi cinquantacinque modi per farlo impazzire molto prima di anche solo prendere in considerazione l’idea di dare il primo bacio.
D’altra parte oggi una dodicenne che si vedesse comparire davanti il video di “Material girl” (video che i quarant’anni li compirà tra tre mesi) non riconoscerebbe la citazione cinematografica, perché Rai 3 non le manda più i film di Howard Hawks alle dieci e mezza di sera, contribuendo all’impossibilità per lei di farsi una cultura generale; ma, se anche la Rai i film classici glieli trasmettesse, la dodicenne vede solo quel che c’è in apertura di Netflix, dove certo non le appare un film di settant’anni prima. Però c’è qualche speranza che Marilyn e Jane Russell qualcuno gliele ritagli su TikTok, e che quindi la dodicenne di oggi resti ignara che la Ciccone ha citato Hawks ma convinta che abbia copiato TikTok.
Gli adulti, comunque, capivano pochino anche allora, e che Madonna fosse arrivata per restare, sui giornali che ancora leggevamo, non lo diceva nessuno. La previsione era che restasse Cyndi Lauper, quella che sapeva cantare, e che Madonna valesse quanto una Samantha Fox. Le dodicenni che ripetevano quel che leggevano sui quotidiani erano destinate a pentirsi quanto quelle che imparano il mondo da TikTok.
Tre anni e mezzo dopo, la zia F. mi portò a New York, e a Times Square c’era un negozio che ti faceva incidere il tuo demo. Ti mettevano la base in cuffia, e incidevi una canzone come quelli veri. Nonostante allora ci fosse già stato “True blue” – il disco di Madonna che più ho consumato, e probabilmente anche il più bello – la canzone che scelsi d’incidere fu “Time after time”, perché credevo all’autorevole critica culturale, e sapevo che quella da cantare era Cyndi. Però i capelli rossi e gialli non me li ero mai fatti, mentre avevo i cassetti pieni di mezzi guanti: la Ciccone aveva vinto sull’immagine, sul guardaroba, sulle cose davvero importanti.
Sulle cose sulle quali avrebbe vinto per i quaranta successivi anni di bustini di Gaultier e abiti sexy di Dolce e Gabbana ma usati per lavare i pavimenti e svolte bon ton in fiorato Prada e tè delle cinque, e body e scaldamuscoli e filtri Instagram. Per il resto – per recuperare le canzoni e capire quanto le recensioni ci avevano truffate – avremmo tutte quante avuto davanti quattro decenni di devozione. Quattro decenni di preghiere in latino e didn’t know how lost I was, until I found you.