Savoir-faire lioneseL’arte contemporanea che ribolle lungo il Rodano

A Lione c’è un’area industriale dismessa con pentole a pressione che fischiettano, distributori automatici di carote fermentate e un atelier circense di ispirazione pop-grottesca. Sono alcune delle installazioni che animano le Grandes Locos, nuova antenna espositiva della diciassettesima edizione della Biennale cittadina

Clement Courgeon, LOCOS (ph Jair Lanes)

Lungo le rive del Rodano, nei pressi della confluenza con la Saona, si staglia un complesso di edifici alienanti che hanno fatto la storia delle ferrovie francesi. Quelli che sembrano la location perfetta per un rave da strapazzo, fino al 2019 fungevano da centro tecnico della Société nationale des chemins de fer français (Sncf), dedicato alla revisione delle locomotive elettriche e alla manutenzione dei pezzi di ricambio. Dopo quasi duecento anni di esistenza, sono stati riconvertiti in spazi culturali. Oggi le Grandes Locos ospitano le Nuits Sonores, il celebre festival lionese consacrato all’elettronica e, per la prima volta quest’anno, diventano un’antenna della diciassettesima edizione della Biennale d’arte contemporanea di Lione

È proprio qui che fino al 5 gennaio fanno la loro comparsa opere d’arte, happening e installazioni di trentotto artisti internazionali. Con un po’ di immaginazione, la loro fruizione dovrebbe provocare una serie di riflessioni su tematiche quali il viaggio, il movimento, la riparazione e la cura, l’inevitabile contestazione e la forza del collettivo. Un omaggio alla storia di questa immensa area industriale e della sua regione, insomma, rivisitata in chiave contemporanea. 

Les Grandes Locos © Métropole de Lyon – Thierry FOURNIER

In occasione dell’inaugurazione, una performance di Lina Lapelytė ci accoglie all’aria aperta. Un po’ insistenti, la brezza e i raggi del sole settembrino sembrano far parte del setting voluto dall’artista-musicista lituana che ha chiesto a un gruppo di interpreti professionisti e amatoriali di esibirsi in un canto polifonico collettivo. Prima di valicare l’ingresso della Halle 1, Nathan Coley ci mette in guardia: «There will be no miracles here». È questo il titolo della scultura luminosa che l’artista di Glasgow ha scelto per stimolare il dibattito negli avventori della Biennale. Non è che una piccola amuse-bouche di ciò che ci attende. 

Restiamo in tema culinario dunque. All’interno c’è profumo di popcorn. Li sentiamo sfrigolare. È Clément Courgeon che da Parigi ha trasportato fin qui la sua roulotte bianca e rossa, percorrendo addirittura un centinaio di chilometri a cavallo. Giunto alle Grandes Locos, ha allestito la Chariotte des malins (il carretto dei furbi in italiano). Impregnato tanto di tradizioni folkloristiche medievali quanto di pratiche popolari odierne, il suo atelier ambulante di ispirazione pop-grottesca, evoca l’universo delle feste di paese. In mezzo a questo accampamento improvvisato, prendono vita laboratori che richiamano le pratiche circensi, ecco spiegata la distribuzione di mais scoppiato. 

 

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Si prosegue attraversando un monumentale tubo di legno sorretto da piccole tartarughe in metallo che taglia in diagonale il vasto capannone. Così l’austriaco Hans Schabus ci proietta in una dimensione parallela, fatta di passi che rimbombano e prospettive distorte. All’uscita si scorge il “Cactus” di Mona Cara che pende dal soffitto. Arazzo storico o fumetto ironico a seconda delle interpretazioni, quest’opera riprende il savoir-faire lionese del Jacquard. 

È la messa in scena di un’apocalisse gioiosa, variopinta, composta da pizzi confezionati da associazioni di artigiani e volontari nella regione Alvernia-Rodano-Alpi. Poi un borbottare di pentole a pressione si insinua nel percorso. Sono le Marmittes Enragées di Pilar Albarracín. Servendosi di questa schiera casseruole che si attivano all’avvicinarsi del visitatore, l’artista andalusa richiama l’attenzione sulla rivendicazione femminista nella sfera domestica. 

ph. Jair Lanes

Di fronte alle marmitte troneggiano tre vending machine con cappello da chef, ognuna rappresenta uno dei tre Healthy Boyband, tre indisciplinati chef austriaci adepti alla magica corrente gelinazziana. Per la prima volta presentano Public Health Care. Colmi di pickels di carote fermentate allo zenzero e peperoncino, e bibite rinfrescanti a base di vitamina C, i distributori si abbinano a grossi pannelli arancioni e gialli dalla grafica pulita, accattivante, impeccabile, firmata Public Possession

Healthy Boy Band feat Public Possession (ph. Giovanna Castelli)

Uno di questi intima: «If in doubt follow your nose. Go eat at a place that makes you happy. Where people are kind. Find a large table full of people. Real life conversations in communal dining. A bit of comedy». Un suggerimento che va preso alla lettera. Ci si accomoda alla tavolata di legno che completa l’installazione. Felix Schellhorn, uno dei membri del collettivo austriaco strampalato, se la sta spassando con Marvin Schuhmann e Valentino Betz, i co-fondatori di Public Possession. 

È a quest’intrigante realtà (e store) di Monaco le cui attività spaziano dalla produzione musicale, alla moda passando per una serie di dj-happening, a cui dobbiamo la grafica. Nel frattempo, il suo compare Philip Rachinger, Philou per gli amici, ce la sta mettendo tutta per corrompere la security in uno sgabuzzino non lontano. Si è messo a cucinare un pentolone di gustosi spatzle di carote con la sua inseparabile placca a induzione. Basta un boccone per assaporare quell’inconfondibile intersezione tra cucina e arti plastiche. Un mix perfetto di fast food e alta gastronomia, installazione partecipativa e performance collettiva che ha decretato il successo degli Healthy Boy Band.

Hans Schabus, LOCOS (ph Jair Lanes)

Quest’edizione della Biennale d’arte contemporanea si spalma su nove scene sparse per la città dove si alternano giovani artisti e protagonisti francesi affermati come Christian Boltanski o Annette Messager. Alexia Fabre, direttrice delle Belle Arti di Parigi è l’invitata d’onore che li ha scrupolosamente selezionati affiancando la direttrice artistica Isabelle Bertolotti. Un budget da otto milioni di euro, settantotto artisti in totale – di cui il cinquantanove per cento stranieri –, duecentottanta opere, un terzo delle quali esposto per la prima volta, e settanta prodotte specificamente per l’evento. Queste cifre da capogiro contribuiranno, si spera, ad accogliere i circa trecentomila visitatori attesi. «La voce dei fiumi, Crossing Waters» è il nome che le due donne si sono inventate per l’ultima edizione di una delle più importanti manifestazioni di arte contemporanea in Francia. 

ph Jair Lanes

 

Affrontando il tema dell’attraversamento delle acque, l’evento rinvia all’accoglienza del prossimo, facendo leva sull’uso millenario della rete fluviale della regione che ha permesso di trasportare e scambiare prodotti, facilitato la mobilità delle persone e la generazione di incontri. Non c’è da stupirsi, quindi, se i progetti artistici siano stati pensati in risonanza con i luoghi, le loro storie e quelle popolazioni che li abitano, snodandosi in un percorso lungo il fiume Rodano. Artisti e visitatori si interrogano sulle relazioni che si instaurano e si sciolgono tra esseri umani, certo, ma anche con l’ambiente. 

Tra i vari siti espositivi, il macLYON è storicamente quello più legato alla biennale sin dalla sua creazione nel 1991. Altri, come la Cité Internationale de la Gastronomie o le Grandes Locos, sono una novità di quest’edizione che vale la pena di esplorare. Entrambe riflettono l’immagine della città che li ospita: creativa, multiculturale, ecologica e… altamente gastronomica. 

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